Mad Max: Fury Road, la recensione

Quando nel 1979 usciva nei cinema Mad Max, da noi rititolato Interceptor, nessuno si sarebbe immaginato che quel piccolo film non solo si sarebbe contraddistinto tra i più redditizi ozploitation di sempre, ma avrebbe fatto tendenza dando vita a un vero e proprio filone cinematografico. Oggi, a distanza di trent’anni precisi dall’ultimo atto di una trilogia che si era conclusa con Mad Max: Oltre la sfera del tuono, il “folle” torna sul grande schermo con una veste tutta nuova ma la stessa grinta e lo stesso regista che firmò i tre capitoli d’origine, l’australiano George Miller.

Mad Max: Fury Road, che può essere definito più un sequel che un reboot, visto che non racconta di nuovo la storia di Max, è un oggetto davvero strano, uno di quei film che, mentre lo stai guardando, hai la sensazione che sarà destinato a lasciare il segno.

Si parte in quarta, con la cattura di un Max barbuto e senza meta da parte di un gruppo di predoni esaltati che siedono sotto il comando di Immortal Joe. Fughe, pestaggi e ancora fughe, finché Max finisce a fare da “sacca del sangue” per gli autisti di Joe, che per la maggior parte hanno malattie genetiche e necessitano di frequenti trasfusioni. Lo stesso Joe sta cercando di tirar su una prole sana e forte, ma l’atmosfera nucleare e le mutazioni gli stanno dando solo figli deformi. L’unica sua speranza sono cinque giovani e sane mogli che potrebbero assicurargli una discendenza in salute. Finché l’imperatrice Furiosa, una delle luogotenenti di Joe, ha la pesata di sottrarre le cinque donne (tra cui una già incinta) per portarle in un’oasi verde dove farle vivere in libertà. Cosa c’entra Max in tutto ciò? Joe manda il suo esercito all’inseguimento di Furiosa e uno degli autisti, Nux, ha come sacca di sangue Max, che si ritrova catapultato, suo malgrado, in una guerra per la libertà delle donne.

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Drasticamente differente dalla trilogia anni ’80 pur conservandone le caratteristiche basilari, il nuovo Mad Max è un’opera estrema in ogni sua componente, dalla struttura narrativa al ritmo. Coerentemente anarchico, così come immerso nell’anarchia è il mondo in cui si ambienta, il nuovo film di Miller è un’esaltazione di quell’estetica che proprio i Mad Max hanno creato. Ottani e decibel sono portati al massimo per un film tanto esile narrativamente quanto potente in ogni sua minima componente, capace di toccare i sensi dello spettatore in modo tale da aggrapparsi con ferocia al suo corpo e alla sua mente durante le due ore di proiezione.

Mad Max: Fury Road rappresenta il punto di non ritorno per l’action post-apocalittico, un film cinetico nel vero senso della parola che impone immediatamente un look dalla grande personalità. La polvere è ovunque, il calore delle temperature e dei motori bollenti si percepisce sempre, la ruggine regna e la regola è correre, sempre e comunque. L’intero film è una corsa, anzi una fuga: i personaggi fuggono dal proprio passato (Max è perseguitato dai fantasmi della sua famiglia che non è riuscito a salvare), fuggono per trovare la propria libertà, fuggono verso la pace dei sensi nel Valhalla, fuggono dal destino che li ha condannati a non poter popolare il mondo con figli sani. Un’eterna corsa che si materializza in lunghissimi e complessi inseguimenti nel deserto: autocisterne blindate, rimorchi, moto, tank, monster truck, auto corazzate, una moltitudine di veicoli che si rincorrono, si scontrano e si fanno portatori di morte e distruzione. Alla veneranda età di 70 anni, Miller gira le scene d’azione come neanche il più videoclipparo dei giovani registi saprebbe fare, con un ritmo, un ordine e una complessità da lasciare a bocca aperta, aiutato da un montaggio serrato che meriterebbe senz’altro un premio Oscar.

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Al di là dell’estremizzazione che fa di Mad Max: Fury Road un film dalla narrazione e dalla gestione dell’azione anomale, ci ritroviamo comunque una corposa riflessione sul concetto di libertà. Il mondo è andato a puttane, questo lo sappiamo già dall’incipit del primo film, ma in un contesto in cui ognuno può essere potenzialmente libero perché sottratto da qualsiasi regola, vige una sottomissione dispotica che ha limitato la libertà personale di chiunque. Raggruppata in piccole fazioni autonome, l’umanità è soggiogata da signorotti dittatori che si impossessano dei beni primari (acqua, cibo, carburante) e della vita dei loro “sudditi”. In questo scenario, la donna è regredita a “oggetto”, utilizzata per la riproduzione e per riempire taniche con il latte materno, essenziale per il sostentamento; dunque è proprio la donna il simbolo della rivoluzione, della ricerca di una nuova emancipazione. Di questo messaggio si fa portatrice Furiosa, una mascolina e dannatamente affascinante Charlize Theron, monca di un braccio (su cui ha applicato una protesi meccanica) che di fatto è la vera protagonista della vicenda. Max, che un tempo aveva il volto di Mel Gibson e qui la faccia da schiaffi di Tom Hardy, è un osservatore che si trova continuamente catapultato in spiacevoli avventure che non lo riguardano in prima persona. Nel ruolo del gran villain, Immortal Joe, troviamo Hugh Keays-Byrne che vestiva i panni del cattivo anche in Interceptor.

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Con dei richiami al cinema anni ’80 di cui è figlio, Mad Max: Fury Road è un giocattolo per adulti, un circo pieno zeppo di freak che diverte ed emoziona, ma lascia anche un po’ turbati. Per il suo genere è un must assoluto, per il cinema in generale è una scheggia impazzita che rischia di colpirvi continuamente. Potete stare sicuri che un giorno si parlerà di Fury Road allo stesso modo di come oggi si parla di Interceptor: è già un classico.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Ritmo pazzesco.
  • Scene d’azione di una perfezione inquietante.
  • Anarchico e totalmente folle.
  • Farà la storia.
  • Forse troppo lungo per l’esile trama che ha.
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Valutazione: 9.0/10 (su un totale di 1 voto)
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Mad Max: Fury Road, la recensione, 9.0 out of 10 based on 1 rating

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