Una storia senza nome, la recensione

A dar titolo al nuovo film di Roberto Andò è, a sua volta, il titolo di lavorazione di un film a cui i personaggi della vicenda stanno lavorando. Un cortocircuito meta filmico che dà modo al regista di Viva la libertà e Le confessioni di riflettere sul suo lavoro, sulle figure che vi gravitano attorno e gettare una luce divertita sull’ambiente senza tralasciare quell’accenno alla cronaca italiana, da sempre tratto distintivo di certo cinema di denuncia. Un piatto ricco e appetitoso, di cui, però, i vari ingredienti sono mescolati senza una cognizione di causa, dando vita a un risultato decisamente indigesto.

Valeria Tramonti è la segretaria del produttore cinematografico Vitelli e ghost writer per lo sceneggiatore Alessandro Pes, di cui è innamorata. Quando Pes si trova alle strette per consegnare la sceneggiatura del suo nuovo film a Vitelli, Valeria viene contattata da un misterioso anziano che si fa chiamare Rak, che racconta alla donna una storia che desidererebbe veder trasposta a film. Valeria accetta e comincia a consegnare all’amante le prime pagine di una sceneggiatura che parla del celebre dipinto di Caravaggio Natività, sottratto dalla mafia nel 1969 da una chiesa di Palermo e mai più ritrovato, su cui oggi esistono diverse leggende. La storia piace a Vitelli, che decide di trasformarla immediatamente in film, ma tra i produttori c’è Spatafora, affiliato a Cosa Nostra.

Presentato fuori concorso alla 75esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Una storia senza nome è tanto promettente sulla carta quando sgangherato nella realizzazione. Innanzitutto ci sono degli elementi base che non quadrano, come l’entusiasmo dei produttori nel realizzare un film che – obiettivamente – non sembra di sicuro appeal sul grande pubblico, con tanto di ingenti investimenti e coinvolgimento di un regista di fama internazionale che, a sua volta, spende quei soldi per fare un’opera in bianco e nero in stile Ciprì e Maresco. Anche le fasi di scrittura dello stesso sono completamente fuori da ogni logica e tralasciano quelle che sono le reali fasi di realizzazione che poi portano a uno script. Nonostante i grandi professionisti accreditati, paradossalmente, forse per eccessiva semplificazione, Una storia senza nome sembra essere realizzato da chi il cinema non l’ha mai fatto!

In secondo luogo, notare che in un film che ha al centro della storia la stesura della sceneggiatura è proprio lo script a scricchiolare, fa una strana sensazione da “passo più lungo della gamba”. In Una storia senza nome, infatti, ci sono troppi elementi narrativi che non convincono, tanti buchi che non riescono ad essere colmati. Perché la mafia non impedisce la realizzazione del film? Perché alcuni personaggi cambiano idea durante la vicenda? Inoltre, in più di un’occasione vengono utilizzate euristiche narrative per uscire da situazioni complesse, dei personaggi hanno delle trasformazioni caratteriali non giustificate e perfino i colpi di scena vengono gestiti con troppa prevedibilità.

E un po’ dispiace che Andò abbia sbagliato il film perché nello stesso c’è una certa voglia di sperimentazione inter-genere che in più occasioni suggerisce come il tono fosse invece quello giusto. Di base abbiamo un giallo, strutturato in maniera europea (non italiana!) e con sapore un po’ retrò, però allo stesso tempo c’è una preponderante componente comedy che alleggerisce tutta la vicenda e rende la visione molto ritmata. Anche dal punto di vista interpretativo ci sono diverse scelte felici, a cominciare da Alessandro Gassman nel ruolo dello sceneggiatore marpione Alessandro Pes, per non parlare dell’ottimo e intenso Renato Carpentieri nel ruolo del misterioso Rak. Micaela Ramazzotti, invece, non appare adatta a questo ruolo, sembra uscita da un fumetto e i suoi sbalzi interpretativi a volte irritano.

Insomma, Una storia senza nome non funziona, c’è poco da aggiungere.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Alternanza tra giallo e commedia.
  • Gassman e Carpentieri sono ottimi.
  • Sceneggiatura scricchiolante.
  • Micaela Ramazzotti.
  • Alcune scelte, semplificazioni, fanno quasi credere che non c’è conoscenza del mezzo cinema… cosa ovviamente improbabile.
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