A Private War, la recensione

Ispirandosi all’articolo di Vanity Fair Marie Colvin’s Private War, uscito nel 2012 a firma di Marie Brenner, lo sceneggiatore Arash Amel (Grace di Monaco, The Expatriate) redige uno script votato ad esplorare la vita e, soprattutto, il lavoro della reporter di guerra Marie Colvin. Per portare in scena questo singolare biopic è stato chiamato il documentarista Matthew Heineman, qui al suo esordio con un film fictional, impegnato nel rendere nel modo più realistico e diretto possibile l’ossessiva ricerca dello scoop da parte di una donna che ha segnato la storia del giornalismo ed esplorato una nuova latitudine dell’eroismo femminile.

A Private War ricostruisce gli ultimi anni di vita di Marie, reporter del Sunday Times fin dal 1985 e impegnata in località di guerra per documentare l’orrore e l’ingiustizia senza mai calcare troppo la mano sull’aspetto sensazionalistico. Di bella presenza e di sicuro carisma, nonché di innato coraggio, Marie Colvin nella sua carriera è riuscita a intervistare ben due volte Gheddafi, è stata testimone del ritrovamento del suo cadavere massacrato, ha dato voce ad Arafat e ha perso un occhio durante un attentato in Sri Lanka.

Cecenia, Iraq, Afghanistan, Libia… tutti luoghi ad alto tasso di pericolo in cui Marie era sempre presente a documentare la vita e la morte di persone di cui a nessuno sembrava realmente importare. Il film prende avvio poco prima dell’incidente che le ha causato la cecità all’occhio sinistro e il suo impegno in Libia e in Siria, sacrificando completamente la sua vita personale e sentimentale e instaurando un sodalizio lavorativo (e d’amicizia) con il fotografo Paul Conroy.

Lontano da qualsiasi tipo di moralismo, Heineman porta in scena in maniera molto rigorosa la vicenda di una donna profondamente dominata dal suo impegno lavorativo: Marie Colvin ci viene mostrata come una stakanovista convinta che mette al primo posto delle sue priorità la professione che le dà da vivere. Allo stesso tempo, però Marie è anche vittima di un’ossessione, il suo lavoro la guida in ogni scelta di vita schiavizzandola, ma si tratta di un rapporto sadomasochistico che Marie accetta di buon grado, anzi, sembra piacerle in maniera a tratti inquietante, patologica.

Con lo scorrere dei minuti, si può facilmente instaurare un parallelismo tra Marie Colvin e il Sergente William James, protagonista di The Hurt Locker: per entrambi la guerra diventa una droga, difficilissimo starne lontani. La vita di Marie ruota attorno agli scenari di massacri e genocidi, la sua sete di sapere, di carpire l’immagine giusta, di documentare la verità e la realtà l’hanno contagiata e fanno terra bruciata attorno a lei. Le poche occasioni in cui vediamo Marie impegnata nella sua vita privata, sembra quasi a disagio: è triste, tormentata, vogliosa di tornare in azione.

Buona parte della riuscita di A Private War si deve a Rosamund Pike, meravigliosa protagonista di un biopic molto differente dal genere a cui appartiene, che riesce a dar corpo anche con una certa ricerca della mimesi a un personaggio molto complesso, soprattutto perchè impegnata a esteriorizzare i processi psicologici che animavano l’ossessione della reporter. Braccio destro della Colvin, e quindi di Rosamund Pike, il fotografo Conroy, interpretato da Jamie Dornan, sempre alla ricerca di ruoli che possano scrollargli di dosso l’ingombrante personaggio di Christina Grey. Un attore in crescita, gli si deve riconoscere.

A Private War è stato presentato alla 13^ edizione della Festa del Cinema di Roma e sarà distribuito nelle sale italiane dal 22 novembre da Notorious Pictures.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Rosamund Pike dà copro alla protagonista con incredibile immedesimazione.
  • Un riuscito connubio tra stile documentarista e narrazione da cinema fictional.
  • La pretesa di raccontare Marie Colvin come era realmente si perde un po’ nell’insistito stakanovismo del personaggio.
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