Blancanieves, la recensione
C’era una volta una bambina che non aveva mai conosciuto la madre. Lei imparò l’arte da suo padre, un famoso torero, ma era odiata dalla sua malvagia matrigna. Un giorno lei scappò con una truppa di nani-toreri, e divenne una leggenda.
Qualcuno risvegli Buster Keaton dalla tomba e gli dica che si sbagliava e che – ebbene si! – è ancora possibile girare film muti. Credo che ne sarà contento. Evitate magari di dirlo a D. W. Griffith che, con i tempi che corrono, sarebbe capace di girare il sequel di Nascita di una nazione…
Dopo The Artist ecco arrivare l’omaggio al cinema muto in salsa iberica, Blancanieves, diretto da Pablo Berger, con Maribel Verdù (Il labirinto del Fauno) e Macarena Garcia. Accantoniamo fin da subito tutte le questioni riguardanti il senso che tali operazioni possano avere all’interno del panorama cinematografico contemporaneo e tutte le possibili polemiche sull’anacronismo e sulla sterilità di tali proposte. Non c’è dubbio che occorra guardare il film per quello che è senza andare ad attaccarlo su dei punti che erano dichiarati sin dal principio: Blancanieves è un film muto e come tale va guardato e analizzato. Fino a qui nessun dubbio, ma per recensire un prodotto che si regge su un linguaggio totalmente diverso da quello dominante e, soprattutto, che appartiene al cinema che fu, occorre fare delle premesse metodologiche. D’altra parte il passaggio muto-sonoro non è stato una semplice introduzione dei dialoghi nel film, ma è stato un vero e proprio sconvolgimento epocale, che ha fatto mutare non solo la struttura narrativa del cinema, ma anche le modalità di produzione, quelle registiche e soprattutto attoriali, senza contare il cambiamento di fruizione da parte del pubblico… Insomma, non è stato un evento da poco. E’ per questo che bisogna prima capire con quale occhio e sguardo spettatoriale guardare una pellicola come Blancanieves: semplice omaggio per cinefili incalliti? Gioco post-moderno sull’ibridazioni dei linguaggi? O film narrativo a tutti gli effetti?
Quest’ultima opzione è presto negata per un vizio insito nella forma stessa del film: un prodotto con un’estetica e con un linguaggio anni ’20 non può essere in grado di parlare al pubblico e di creare l’empatia, nel senso moderno del termine. C’è una forte barriera all’immedesimazione dovuta all’assenza del sonoro, alle didascalie, alla musica onnipresente e al bianco e nero. Pertanto quello che resta è un prodotto post-moderno: ibrido di nuovi e vecchi linguaggi, omaggio per cinefili e amanti del cinema che fu.
Guardato con questi occhi Blancanieves funziona ed esemplifica a pieno il suo statuto di racconto favolistico, con un respiro narrativo epico e poetico, con interessanti trovate visive e narrative. La fotografia, di Kiko de la Rica, esalta il bianco e nero in modo magistrale e con trovate visive spiazzanti e di forte impatto. La musica, composta da Alfonso de Vilallonga, è senza dubbio eccellente: bella da sentire e funzionale alle scene. La narrazione, e quindi la vita di Carmencita alias Biancaneve, si basa in sostanza su una serie di disgrazie che si susseguono senza tregua dall’inizio alla fine. Mariottide la definirebbe “tristezza a palate” e giusto Marcellino pane e vino potrebbe rubarle la palma d’oro per la maggior disgrazia… Tuttavia questo accanimento sulla vita di Carmencita, apparentemente spiazzante, è volutamente marcato e spinto sino ai limiti estremi proprio per contribuire a dare forza epica alla narrazione-favola (anche se il Gallo Pepe se lo potevano risparmiare!).
I topoi della favola di riferimento ci sono tutti a partire dalla matrigna, passando per i nani (parliamo di nani-toreri!), sino alla celebre mela. Nel finale riesce a ribaltare i dettami favolistici della versione Disney, accostandosi alla versione pensata dai Grimm in modo elegante e poetico regalando l’unica vera emozione dell’intero film. L’elemento più interessante è proprio la relazione che il film instaura con la favola del titolo. Infatti i personaggi all’interno della narrazione sono a conoscenza della favola ed essi stessi vi giocano chiamando Carmencita col nome di Biancaneve. Quindi non si tratta di una rivisitazione dell’opera dei Grimm, come nel caso della Disney, ma di un’altra favola, ex novo, totalmente diversa, che però cita e gioca con i topoi di Biancaneve: ne è derivativa ma tuttavia autonoma. Anche in questo Berger dimostra il suo carattere post-moderno, come nella contrapposizione tra la scelta stilistica del genere muto e il linguaggio moderno adottato dalla recitazione, dalla regia e dal montaggio, che molto raramente si rifanno alle estetiche del muto.
Tutto questo fa di Blancanieves un prodotto decisamente interessate che tuttavia non nega, nel corso della sua ora e mezza, qualche sbadiglio e numerose sbirciatine all’orologio. Forse se fosse stato realizzato col sonoro sarebbe stato un grande film, ma questa è solo una provocazione che lascia il tempo che trova…
Consigliato solo ai cinefili e agli amanti del cinema muto. E a Buster Keaton e a Griffith, ovviamente.
Lorenzo Giovenga
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