Cattive storie di provincia: il Male è un lavoro sporco che qualcuno deve pur fare…

Sono passati già tre anni dal suo ultimo romanzo, periodo durante il quale Giacomo non ha trovato la giusta ispirazione per un’ulteriore opera. Però ora il suo editore reclama un nuovo romanzo e se il ragazzo non gli consegnerà una bozza entro due mesi il loro contratto può ritenersi sollevato. Come se non bastasse, Giacomo si trova in un periodo difficile con sua moglie Mara, con la quale è a un passo dal divorzio. La pressione della sua situazione coniugale incide sul lavoro finché Giacomo decide di ascoltare il consiglio di un suo amico e per cercare la giusta ispirazione si limita ad osservare ciò che lo circonda. Così facendo, armato di taccuino, il ragazzo comincia a scoprire che quella che appare come la tranquilla vita degli abitanti di provincia può nascondere più di un segreto.

A distanza di un anno da L’accordo, Stefano Simone ha firmato un nuovo lungometraggio che stavolta prende le distanze dalla linea intrapresa negli ultimi anni con il dramma sociale, rappresentato da Fuoco e fumo che denunciava la piaga del bullismo e L’accordo, appunto, che affrontava il tema della bi-genitorialità. Il regista pugliese, infatti, sceglie di tornare alle atmosfere del noir, genere che in passato ha già esplorato con contaminazioni mistery/thriller e lo fa ispirandosi liberamente all’opera antologica di Gordiano Lupi Cattive storie di provincia, da cui “ruba” anche il titolo. Dall’antologia dell’autore toscano risalente al 2009 Stefano Simone prende in particolare quattro racconti: La spiaggia, Un’inchiesta difficile, La cassiera e Divertimenti notturni, li fonde tenendo come cornice il primo racconto, e crea di suo pugno una storia quasi inedita che gioca con lo spettatore, depistandolo e sorprendendolo con colpi di scena.

Cattive storie di provincia

Cattive storie di provincia coglie il punto di vista esclusivo di Giacomo, trent’anni circa, sguardo curioso da cui però si intuisce il disagio di una vita imprigionata nella routine, nella frustrazione di una dimensione provinciale e famigliare chiaramente inospitale. Il classico grande pesce intrappolato in un piccolo lago.

E qui capiamo che il matrimonio fallito è anch’esso la conseguenza di quella quotidianità inappropriata, così come lo è il lavoro sull’orlo del baratro. Il segreto per uscire da una situazione così nera è prendere il toro per le corna, affrontare di petto proprio quella sconfortante routine e utilizzarla a proprio vantaggio codificandola come fulcro dell’ispirazione ritrovata.

Cattive storie di provincia

In questo cambiamento di prospettiva troviamo il cuore pulsante del racconto che si trasforma quasi in una detective story, con il protagonista intento nel pedinare persone che la sua osservazione gli ha suggerito come potenziali custodi di una storia interessante. Giacomo comincia a raccogliere indizi, a costruire castelli di carte che, come tali, possono crollare in qualsiasi momento… nella realtà, ma non nell’immaginazione di uno scrittore che può praticamente qualsiasi cosa.

Dietro stessa dichiarazione del regista e sceneggiatore Stefano Simone, una fonte d’ispirazione per Cattive storie di provincia è La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock e infatti, come un novello James Stewart, Giacomo spinge troppo in là l’immaginazione e, fortunatamente per le dinamiche del thriller, non solo l’immaginazione!

Cattive storie di provincia

Cattive storie di provincia evita tutti i cliché classici del thriller e immerge lo spettatore in una storia che fa della normalità la via preferenziale verso la follia. La violenza ricercata dal protagonista, a lungo immaginata, diventa un virus che lo contagia trasformandolo di fatto nella storia che sta cercando. C’è un discorso metanarrativo dietro il nuovo film di Stefano Simone che si presta a più chiavi di lettura: la provincia è un luogo da cui si può fuggire solo con l’immaginazione oppure assorbe chi vi abita fino a spingerlo verso gesti impensabili? Ovviamente il film, da buon thriller, estremizza una visione dell’umanità come schiava di determinate dinamiche, centra l’obiettivo fornendo una descrizione lucida e originale dei limiti verso i quali l’uomo può spingersi.

Cattive storie di provincia ha però un difetto macroscopico: dura troppo. Quasi 120 minuti che non sono sfruttati a dovere portando la storia a incartarsi in evitabili ripetizioni che non aiutano a comprendere meglio il comunque ottimo arco narrativo del protagonista ma rallentano pericolosamente il ritmo del film.

Cattive storie di provincia

Buoni gli interpreti principali Luigi Armiento (Giacomo) e Rosa Fariello (Mara), ma il più convincete è Filippo Totaro, attore ormai feticcio per Stefano Simone che dà vita a un editore cinico e sopra le righe, perfettamente nelle corde dell’attore.

Musiche originali del fidato Luca Auriemma e fotografia, dello stesso Stefano Simone, che predilige efficacemente colori acidi e conferisce un’aria pop al film.

Roberto Giacomelli

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