Crimson Peak, la recensione
Era nell’aria da tempo. Uno dei maggiori talenti del cinema fantastico contemporaneo, il messicano Guillermo Del Toro, doveva cimentarsi col filone gotico e l’occasione arriva con il prestigioso Crimson Peak. Del resto c’erano stati chiari segnali della passione di Del Toro per le atmosfere lugubri e decadenti che ammantano vecchi manieri arroccati, basta guardare alla sua carriera extra registica con il bellissimo The Orphanage, che ha prodotto, e Non avere paura del buio, che ha prodotto e sceneggiato. Per il suo esordio gotico, il regista messicano ha deciso, coerentemente, di cimentarsi con un racconto di fantasmi, omaggiando proprio la più classica tradizione di genere, e pur rimanendo rigoroso nello stile e nella narrazione, con Crimson Peak riesce a infondere un’impronta altamente personale e autoriale.
Seconda metà dell’Ottocento. La giovane Edith Cushing, orfana di madre, ha un dono che vive come una maledizione: riesce a comunicare con i morti fin da bambina, motivo per cui è stata spesso visitata dalla defunta genitrice, che sibillina l’ha più volte avvisata di stare lontana da Crimson Peak. Quando Edith fa la conoscenza di Sir Thomas Sharpe, un ingegnere inglese che propone un brevetto al padre della ragazza, quest’ultima se ne innamora. In breve tempo i due convolano a nozze e in seguito alla misteriosa morte del padre di Edith, la ragazza si trasferisce nell’immenso maniero di Sir Sharpe, nel bel mezzo della brughiera inglese. Qui Thomas vive con sua sorella Lucille e si occupa dell’estrazione di una preziosa argilla rossa di cui la zona è colma e che trabocca anche dai muri della villa. Ma ben presto Edith comincia ad essere perseguitata da inquietanti e spaventose presenze che infestano la casa…
Del Toro non è nuovo all’horror, genere con il quale ha esordito nei primi anni ’90 (Cronos, del 1993) e con cui ha segnato importanti tappe della sua carriera registica, sia indipendente (La spina del Diavolo), che più mainstream (Mimic, Blade II). Con Crimson Peak troviamo una perfetta sintesi delle sue due anime perché se da una parte ci troviamo di fronte a una grossa produzione Legendary Pictures (la stessa del precedente blockbuster Pacific Rim), dall’altra ritroviamo molti temi cari al regista di Hellboy. Innanzitutto Crimson Peak è una ghost story sui generis così come lo era La spina del Diavolo, film con il quale intrattiene più di una similitudine. Come spiega all’inizio Edith, appassionata di letteratura orrorifica e scrittrice in erba, il racconto a cui sta lavorando non tratta propriamente di fantasmi, che di fatto sono solo una metafora. Questo concetto, oltre ad essere uno scaltro elemento meta narrativo, era già presente in La spina del Diavolo, dove l’accezione di “fantasma” era utilizzata in maniera molto più ampia e profonda. In Crimson Peak gli elementi della ghost story servono innanzitutto a depistare l’attenzione dello spettatore, a giocare con esso (e con i generi) per raccontare altro, facendosi – ovviamente – metaforici di un passato invadente e tragico che colpisce parte dei personaggi della storia.
Poi la ghost story è anche parte di un progetto citazionista e molto colto che sta nelle intenzioni del regista, che scrive anche il film insieme a Matthew Robbins, con il quale aveva già collaborato in Mimic e Non avere paura del buio. In Crimson Peak c’è tutto l’universo immaginifico legato al filone gotico, letterario e cinematografico: se il cognome della protagonista cita esplicitamente uno dei più grandi attori del cinema gotico inglese, Peter Cushing, i riferimenti alla Hammer sono costantemente presenti e vanno individuati sia nei risvolti della trama che nell’utilizzo sontuoso delle musiche, affidate a Fernando Velàsquez. Dalla Hammer deriva anche l’inserimento di elementi rosa, che sfociano nel dramma, e punte di sano e divertito splatter che hanno caratterizzato gli anni più audaci e tardivi della casa di produzione britannica. A ciò va unito tutto un background letterario che da Horance Walpole arriva a Henry James, passando doverosamente da Edgar Allan Poe, a cui è dedicato il più evidente rimando con La caduta della casa degli Usher. Un intellettualismo misto alla vera passione da fan che si fa evidente nell’utilizzo di giochi fotografici che rimandano alla tradizione cinematografica gotica italiana, a quei Bava e Freda che giocavano con i colori in maniera innaturale come fa in Crimson Peak il direttore della fotografia Dan Lausten, che contamina tutto (e tutti, compresi i fantasmi!) con il rosso cremisi nominato anche nel titolo.
Le spettacolari e darkeggianti scenografie di Tom Sanders completano un quadro generale che fa di Crimson Peak un’opera tanto curata a livello estetico e colta sotto il punto di vista narrativo, quanto genuina e capace di parlare a uno spettatore che non cerca dall’horror gli spaventi facili e il rumore delle produzioni più recenti, alle quali può essere equiparato giusto per un uso a tratti eccessivo della computer grafica per la realizzazione degli spettri
Va senza dubbio citato l’ottimo lavoro dell’intero cast, capeggiato da Mia Wasikowska, ormai abbonata ai ruoli di ragazza smarrita e allucinata, incredibilmente nella parte, così come l’ottimo Tom Hiddleston, che rappresenta la scelta migliore possibile per dar corpo al fascinoso e rassicurante lord inglese. Nel ruolo della sinistra sorella Sharpe c’è la sempre stupenda Jessica Chastain, qui in una parte piuttosto insolita per lei, mentre il cerchio è completato da Charlie Hunnam, già protagonista di Pacific Rim e qui nei panni del dott. Alan McMichael, innamorato di Edith e amico della famiglia Cushing.
Ovviamente c’è anche il “mutaforma” Doug Jones, immancabile nei film di Del Toro e anche qui impegnato a dare corpo alle “creature”, ovvero gli scheletrici fantasmi che perseguitano Edith.
Se siete affezionati a un cinema horror classico, non perdete Crimson Peak, omaggio perfetto, affettuoso e molto attinente a una delle epoche più affascinanti del cinema di paura del passato.
Astenersi cinefili con la puzza sotto il naso.
Roberto Giacomelli
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