Empire of Light, la recensione

1981. Margate, Gran Bretagna. Il cinema Empire riesce ancora a splendere sulla costa grigia dove svetta da anni, nonostante la recessione economica abbia costretto il direttore, Mr. Ellis, a chiudere due delle quattro sale. Ad occuparsi del corretto funzionamento dell’Empire c’è Hilary, vice di Mr. Ellis, con il quale ha anche una relazione tossica, circuita a causa dei suoi problemi passati di sanità mentale. A portare un po’ di luce nella vita di Hilary è Stephen, volenteroso ragazzo di colore vittima del razzismo dilagante in città, che instaura con la sua responsabile un rapporto molto intimo, che sfocia nel sentimentale.

Quella di Sam Mendes è una delle carriere più interessanti e coerenti dell’attuale panorama cinematografico internazionale. Chiaramente intenzionato a cimentarsi con i “generi” con un’autorialità aperta al grande pubblico, Mendes riesce sempre e comunque a raccontare e focalizzarsi su un aspetto intimo delle sue storie, sottolineando l’umanità che sta alla base dei suoi personaggi. Empire of Light rientra perfettamente in questa visione della narrazione cinematografica, ma lo fa giocando in sottrazione, quasi in maniera dimessa. Diciamo che, dopo tre grandi produzioni (Skyfall, Spectre, 1917) e il peso degli Oscar, è come se Mendes sia voluto tornare a raccontare una storia più piccola puntando tutto sulle emozioni, una pausa come lo era stato American Life dopo l’impegno produttivo di Era mio padre, Jarhead e Revolutionary Road.

Partire da questo presupposto è necessario per inquadrare Empire of Light, perché questo è un film che può prendere in contropiede lo spettatore che conosce Mendes per i suoi film più “grandi”.

Empire of Light cattura un momento storico della Gran Bretagna di inizio anni 80, tra recessione economica, decadenza dei valori nazionali e il razzismo imperante attraverso la crescita del movimento dei naziskin, e racconta questo frangente attraverso un luogo (il cinema) e un gruppo di personaggi fuori dal comune. L’idea alla base del film è molto bella e richiama evidentemente anche degli scorci autobiografici del regista, dai luoghi al clima politico che ha vissuto nella sua adolescenza, ma la scrittura dello stesso Mendes non sempre riesce a trasmettere in maniera coinvolgente le suggestioni di questo frangente.

L’impressione che si ha guardando Empire of Light è che non ci fosse un grande trasporto nel racconto delle vite di questi personaggi, una freddezza che si trasmette in un racconto poco accattivante ed empatico a corrente alterna. Ci sono personaggi che hanno poco spazio, come il proiezionista interpretato da Toby Jones, che arrivano subito allo spettatore, ma altri che hanno un ruolo principale, come il nuovo arrivato Stephen, interpretato da Michael Ward, a cui davvero non riesci a trovare un reale interesse. E, di conseguenza, quella che viene a zoppicare è la love story tra Stephen e Hilary, che appare forzata e poco coinvolta/coinvolgente, così da compromettere il focus del racconto.

Hilary è interpretata dalla sempre ottima Olivia Colman e il suo dramma legato a un passato di problemi nervosi e psicologici e un presente di abusi e insicurezze arriva forte e centrato allo spettatore, anche per la consueta professionalità e immedesimazione dell’attrice nei personaggi che interpreta.

Ma non appare davvero necessaria, anche per l’economia narrativa, una storia d’amore con l’altro “reietto” della storia lì dove una bella amicizia avrebbe comunque veicolato con maggiore credibilità il messaggio. Il punto, infatti, è che ad incontrarsi e supportarsi a vicenda sono due persone che, per motivi diversi, vengono valutate inadatte alla società in cui vivono, ma la loro love story non ingrana, non appassiona, appare artificiale, forzata, non ci crede lo spettatore perché i personaggi in primis non sembrano crederci. E così il film sembra soffermarsi e dilungarsi in momenti che non sono quelli più riusciti e importanti, togliendo tempo e spazio ad altri temi che avrebbero meritato più attenzione.

Empire of Light è quindi un film che vive di accenni, di tematiche affrontate parzialmente: di base è una love story fredda e macchinosa, accoglie il tema della malattia mentale ma non lo sviluppa a dovere, affronta il tema del razzismo in Inghilterra ma non lo approfondisce relegandolo a due sole scene di aggressione. Quello di Mendes è un film che accoglie diverse anime al suo interno ma non riesce a svilupparne una completamente sua.

Notevole la fotografia di Roger Deakins, che si è giustamente aggiudicata l’ennesima candidatura agli Oscar.

In conclusione, dunque, Empire of Light è un Sam Mendes minore, il classico film che in futuro probabilmente non lascerà un ricordo incisivo nella filmografia dell’autore. Ci sono belle suggestioni, buoni spunti, ma anche troppe cose accennate e mai approfondite, soffocate da una love story pigra e poco coinvolgente.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Toby Jones e Olivia Colman.
  • Un’atmosfera dimessa e decadente che funziona.
  • La fotografia calda dell’Empire contrapposta alla freddezza dell’ambiente circostante.
  • Michael Ward e il suo personaggio davvero non lascia il segno.
  • Il film affronta più temi ma non ne approfondisce nessuno.
  • La love story al centro della storia è davvero poco convinta e poco convincente.
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Valutazione: 6.0/10 (su un totale di 1 voto)
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