Furiosa – A Mad Max Saga, la recensione del prequel di Mad Max: Fury Road
Nel 2015, George Miller rimetteva mano alla sua creatura storica, Mad Max, a trent’anni dalla conclusione della trilogia che l’aveva reso uno degli autori più influenti della ozploitation: con Mad Max: Fury Road portava a casa un instant cult capace di conquistare pubblico e critica guadagnando ben 6 premi Oscar. Possiamo parlare di vero capolavoro, insomma, in un’epoca in cui questo appellativo (o giudizi diametralmente opposti e ugualmente tranchat) viene elargito con troppa disinvoltura. Già all’indomani del successo di Fury Road, Miller aveva dichiarato che gli sarebbe piaciuto raccontare la storia dell’Imperatrice Furiosa, il magnifico personaggio co-protagonista del film che aveva la tenacia e la fisicità di Charlize Theron. Ci sono voluti ben 9 anni ma alla fine quel film s’è fatto e si intitola Furiosa – A Mad Max Saga, è uno spin-off e allo stesso tempo prequel di Fury Road che espande la mitologia delle Wastelands creando una origin story per il personaggio di Furiosa.
Una bambina di nome Furiosa sorprende un gruppo di motociclisti mentre squartano un cavallo nell’Eden, una zona fiorente e incontaminata fuori dalle mappe delle polverose Wastelands, in cui la bambina vive insieme a una comunità di donne dedite all’allevamento e all’agricoltura. I motociclisti rapiscono la bambina e fuggono via, ma Valkyrie, compagna di giochi di Furiosa, dà l’allarme e la mamma della rapita si mette subito sulle sue tracce. I motociclisti riescono a portare Furiosa nell’accampamento di Dementus, un sanguinario predone che vuole farsi strada tra i signori della guerra e controllare l’avamposto petrolifero di Gastown.
Inizia così l’avventura di Furiosa, una bambina chiamata a crescere troppo in fretta, usata come merce di scambio, vessata e torturata, che ha imparato a parlare poco e a covare un rancore utile a motivarne ogni azione.
Il settantanovenne George Miller crea con Furiosa un’opera complementare e allo stesso tempo antitetica a Fury Road, che ne amplia il contesto e la geografia, ne accentua la mitologia andando a rivangare alcuni punti fermi della precedente trilogia con Mel Gibson, ma con quella verve e quella modernità che avevano contraddistinto il film con Tom Hardy. In questo caso Max Rockatansky non c’è, o meglio, c’è ma sta facendo altro (lo vediamo di spalle in una scena topica nel quarto e ultimo capitolo di cui è composto film) e la storia segue solamente Furiosa abbracciando un arco di tempo di circa 15 anni. Prima è la piccola e fenomenale Alyla Browne a dare corpo a Furiosa, poi la magnetica Anya Taylor-Joy, prima di trasformarsi in Charlize Theron sui titoli di coda del film, fornendo un identikit lungo tre generazioni di un magnifico anti-Eroe che è già mito tanto quanto il suo “collega” Max.
Se Fury Road, però, è un film d’azione puro e crudo, sperimentale nel suo hic et nunc votato alla velocità intra ed extra diegetica, Furiosa è invece un’opera più classica nel modo in cui Miller la racconta e la porta in scena. Strutturato in quattro capitoli, che si estendono lungo 148 minuti di durata (il film più lungo della saga), Furiosa è un’opera narrativamente molto strutturata che segue la crescita e la formazione della giovane protagonista quasi si trattasse di un autarchico coming of age.
Accompagnati dall’auto-formazione della protagonista, scopriamo come sono organizzate le Wastelands, come funzionano gli scambi economici tra i vari avamposti e quindi da dove arrivano le armi e il carburante, quanto conti l’influenza di Immortan Joe e per quale motivo Furiosa, alla fine dei giochi, avrà un arto in meno. Tra personaggi già noti ed altri inediti, Furiosa si pone come tassello di un puzzle che si incastra perfettamente con Fury Road tanto che potremmo vedere i due film come parte di un’unica opera. Questa ipotetica visione delle due parti giustificherebbe anche la vocazione più classica e narrativa di Furiosa, quasi preparatoria al lungo climax finale rappresentato da Fury Road, con il quale condivide la medesima estetica fatta di colori caldi, di ruggine, polvere e metallo.
Se Fury Road accelera, Furiosa decelera, si prende i suoi tempi, si sofferma sull’introspezione della protagonista come mai era stato fatto fino ad oggi in un film della saga di Mad Max. George Miller costruisce il suo bellissimo film attorno al corpo acerbo della sua Furiosa, prima bambina, poi ventenne, sempre colma di rabbia, pronta a incassare calci, pugni, ustioni e amputazioni da sfogare in un piano di vendetta che assume quasi un tono profetico. E infatti l’epilogo è geniale nella sua impostazione da mito omerico che dona tutta un’altra luce sull’intero racconto, iniziato quasi come se si trattasse del rapimento di Elena di Troia e incastonato in una storia epica dalla voce narrante di un anziano Custode della Memoria.
I momenti d’azione sono strategicamente distribuiti all’interno di tutta la vicenda, con un paio di lunghissime sequenze madri incredibili e complesse, una in perfetta continuità con il corpus di Fury Road, quindi influenzata dal classico momento western dell’assalto alla diligenza, l’altra più vicina al linguaggio del cinema bellico, con una missione di sabotaggio al cardiopalma che si fa momento di grande spettacolo.
Va dato atto a Furiosa di aver portato in scena anche un magnifico villain, Dementus, un tiranno egocentrico e sbruffone magnificamente interpretato da Chris Hemsworth, che aggiunge un tocco di ironia grottesca a un film cupo e violento in cui a prevalere è sempre e comunque la legge del più forte e dove chiunque è chiamato ad essere cacciatore per non diventare inesorabilmente preda.
Anche se privo quell’energia anarchica e innovativa di Fury Road che ha già consacrato alla Storia del cinema il film del 2015, Furiosa – A Mad Max Saga è magnifico esempio di blockbuster che sa far collimare arte e intrattenimento facendo dell’intrattenimento una vera e propria arte, un film che intelligentemente non vuole ripetere le dinamiche che hanno portato al successo il suo predecessore ma cerca una sua strada più introspettiva, andando a completare il capitolo “successivo” come se si trattasse di un’unica grande storia.
Roberto Giacomelli
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