Gemini Man, la recensione

Al servizio della Defense Intelligence Agency, Henry Brogan è il miglior sicario in circolazione. Superati i cinquant’anni, Henry inizia a fare un bilancio della vita condotta fino ad ora e così, tormentato da dubbi e sensi di colpa, decide di abbandonare il mestiere e dire addio ai servizi svolti per il governo. Ma alla Defense Intelligence Agency non tutti si fidano di lui, in modo particolare il suo superiore Clayton Verris che decide di “sguinzagliargli” addosso il secondo miglior agente dell’Intelligence. Henry Brogan si trova così faccia a faccia con un pericolosissimo killer capace di prevedere ogni sua singola mossa e spaventosamente simile a lui anche nelle fattezze fisiche.

Con una storia alle spalle lunga più di vent’anni (precisamente ventidue), Gemini Man rientra in quella tipologia di cinema che riesce ad intrigare più per il difficile iter produttivo che per i reali meriti artistici intrinseci alla pellicola.

Nato da un’idea di Darren Lemke nell’ormai lontano 1997, Gemini Man sarebbe dovuto nascere proprio a fine anni novanta sotto l’egida produttiva della Walt Disney Pictures in associazione con Don Murphy (che in quegli anni stava producendo film di rilievo come Natural Born Killers e L’allievo) e per la regia dell’ormai compianto Tony Scott.

Un progetto estremamente complesso sin da subito visto e considerato il massiccio impiego di tecnologia digitale che spinse il laboratorio di vfx della Disney, The Secret Lab, a realizzare il cortometraggio Human Face Project come prova indispensabile a tastare la fattibilità e l’efficacia del concept di base, creare in computer grafica un clone più giovane del protagonista. Il risultato ottenuto con il cortometraggio non fu entusiasmante, sicuramente non all’altezza di una grossa produzione per il grande schermo, così che lo studio di Topolino decise di mettere in stand-by il progetto fino all’avvento di una tecnologia digitale più efficace capace di rendere credibile un progetto del genere.

Da quel momento, Gemini Man è stato più volte tirato fuori dal cassetto e preso in esame dallo Studio coinvolgendo vari registi e sempre attori differenti (da Harrison Ford a Mel Gibson, da Nicolas Cage a Clint Eastwood passando per Sean Connery). Ma nulla di fatto, un progetto sempre troppo dispendioso per poter garantire un risultato all’altezza.

Un’indecisione costante che ci porta al 2016 quando la Skydance acquista i diritti del progetto dalla Disney e Jerry Bruckheimer subentra come produttore del progetto. Da quel momento il processo produttivo accelera – e questo porta a pensare senza alcun dubbio che la Disney non fosse mai stata realmente intenzionata a produrre il film – così che nell’arco di pochissimi anni Gemini Man prende vita coinvolgendo in cabina di regia il premio Oscar Ang Lee e come attore protagonista la star Will Smith.

Affidare Gemini Man ad un regista come Ang Lee, da sempre molto sensibile nei confronti della sperimentazione cinematografica, è stata sicuramente una scelta assai oculata che ha saputo fare bene all’intero progetto. Oltre a questa decantata difficoltà tecnica legata agli effetti digitali e che vuole la creazione di un personaggio interamente digitalizzato che deve apparire come clone ringiovanito del protagonista, Ang Lee alza l’asticella della difficoltà e così trasforma Gemini Man in un esperimento tecnico a 360° determinato a spingere sul pedale dell’iper-realismo sotto un po’ tutti i punti di vista.

Non solo, dunque, una spaventosa e modernissima tecnologia digitale pronta a confondere lo spettatore (dove finisce la realtà e inizia l’artificio digitale?) ma anche un  iper-realismo ottenuto nella modalità di ripresa che spinge il regista di Vita di Pi ad abbracciare la tecnica HFR (High Frame Rate) già lanciata da Peter Jackson con la trilogia de Lo Hobbit e che consiste nel ricorrere ad una nuova tecnica di ripresa e proiezione che contempla un numero maggiore di fotogrammi al secondo (non più i canonici 24fps) volti a restituire immagini più fluide, veloci e prive di artifici visivi. Alla tecnologia HFR, senza dubbio ancora da migliorare, si accosta – come se non bastasse – anche il ricorso ad un stereoscopia perfezionata, un RealD 3D potenziato che sembra andare a braccetto con la tecnica dell’HFR.

Tutto questo fa di Gemini Man una vera e propria cavia da laboratorio, un film che sembra essere il frutto più di un esperimento tecnologico volto a definire le moderne capacità dell’industria cinematografica piuttosto che un vero e proprio intrattenimento per il pubblico.

Il film di Ang Lee, infatti, individua il suo più grande limite (proprio enorme) nella sceneggiatura che restituisce un’idea davvero vecchia, pronta a bilanciare in negativo quella sperimentazione tecnica di cui si è detto. Il film, dunque, è tanto desideroso di stupire da un punto di vista tecnico quanto poco interessato a raccontare qualcosa di “nuovo”. Così ci si affida ad una trama banale vista un milione di volte, in cui tutti i personaggi sono macchiette e ogni cosa appare pretestuosa. Siamo portati a pensare, dunque, che quella sceneggiatura scritta nel 1997 sia stata rimaneggiata poco e niente con l’inevitabile – e paradossale – conseguenza che Gemini Man, questo iper-tecnologico thriller d’azione, possa apparire agli occhi dello spettatore di oggi come un film clamorosamente vecchio.

E tutto questo è un vero peccato perché, nonostante la tecnologia HFR restituisce un’immagine così nitida e iper-reale da apparire poco cinematografica, Ang Lee riesce a trovare il giusto modo di piegarla al proprio volere portando in scena almeno un paio di sequenze action sublimi (quella sulle moto su tutte) destinate a rimanere impresse nella mente dello spettatore per giorni e giorni dopo la visione del film.

Così come la tecnica legata ai fotogrammi convince a fasi alterne (si nei momenti action, no nelle sequenze prive di adrenalina), anche la sperimentazione legata alla computer grafica appare altalenante. In alcune sequenze del film, il gioco funziona bene e sembra davvero di rivedere sullo schermo quel giovanissimo Will Smith che abbiamo amato tutti negli anni novanta in Willy, il Principe di Bel-Air ma, al tempo stesso, in altri momenti (soprattutto nel finale) la magia decade e la computer grafica rivela tutti i suoi limiti, offrendo un risultato persino più scarso rispetto a tanti blockbuster che affollano le sale settimana dopo settimana.

Gemini Man è perciò un film difficile da valutare. Un thriller-action che abbiamo già visto tante volte, vecchio nelle idee e carico di cliché ormai superati da almeno una decina d’anni. Tecnicamente ha qualche asso nella propria manica, ben giocato grazie alla maestria di Lee, ma anche sotto questo profilo l’esperimento non può dirsi completamente riuscito.

Che sia stata reale o meno la volontà di realizzarlo, a fine corsa viene da pensare che forse la Disney non aveva poi così torto in tutti questi anni: il tempo per Gemini Man, probabilmente, non era ancora giunto.

Giuliano Giacomelli

PRO CONTRO
Più che un film, un esperimento tecnico…

Alcune scene d’azione sono davvero memorabili.

Più che un film, un esperimento tecnico…

Storia e sceneggiatura vecchie oltre ogni limite.

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Valutazione: 5.0/10 (su un totale di 1 voto)
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