Hunger Games – La ballata dell’usignolo e del serpente, la recensione
Quando Hollywood rimette mano a un franchise a distanza di soli otto anni dalla conclusione effettiva di quel franchise c’è da farsi qualche domanda. Otto anni sono troppi per dar vita a un “semplice” proseguo che faccia leva sulla curiosità e la foga dei fan di allora, ma sono anche troppo pochi per puntare sull’effetto nostalgia o acchiappare un nuovo pubblico attraverso un reboot. Otto anni non hanno dato modo né di sentire una mancanza né di aprire la strada a spettatori più giovani cresciuti nel “mito di”. E infatti Hunger Games – La ballata dell’usignolo e del serpente è un film dal fiato cortissimo e destinato a un veloce oblio, un’opera che non si capisce se prodotta fuori tempo massimo o semplicemente troppo presto.
Mentre i decimi Hunger Games stanno per iniziare a Panem, il giovane Coriolanus Snow, rampollo di una nobile famiglia di Capital City ormai decaduta, viene coinvolto come mentore per uno dei tributi che andrà a partecipare ai Giochi. Al giovane Snow viene assegnata Lucy Gray Baird, del Distretto 12, e Coriolanus ne intuisce subito le innate capacità canore come espediente per far breccia nei cuori degli spettatori degli Hunger Games. Infatti, Coriolanus si rende conto del grande potenziale mediale di questo evento, un potenziale sfruttato solo in parte, e inizia un processo di manipolazione dei decimi giochi per aggiudicarsi il benestare dei telespettatori. Ma a poco a poco, Coriolanus inizia a provare un sincero affetto per Lucy Gray.
Iniziata nel 2012 e conclusasi nel 2015 con quattro film, la saga fanta-avventurosa di Hunger Games trae origine dai bestseller di Suzanne Collins che trovavano una conclusione proprio nell’arco narrativo di Katniss Everdeen, brillantemente portata sul grande schermo da Jennifer Lawrence. Per continuare a dar addito agli Hunger Games, dunque, si è dovuto procedere a ritroso con un balzo indietro nel tempo di oltre 60 anni, andando ad esplorare una delle prime edizioni dei “giochi” e, soprattutto, il passato di un personaggio celebre nella saga madre, il cattivo Coriolanus Snow. Anche in questo caso, c’è del materiale di Suzanne Collins a fare da base a Hunger Games – La ballata dell’usignolo e del serpente, l’omonimo romanzo prequel che la scrittrice statunitense ha pubblicato nel 2020.
Ritroviamo anche Francis Lawrence alla regia, che aveva diretto tre dei quattro film precedenti, ma il risultato al quale andiamo in contro con La ballata dell’usignolo e del serpente non è all’altezza della saga madre, o almeno non dei primi due riuscitissimi capitoli.
Innanzitutto, La ballata dell’usignolo e del serpente non ha avuto un buon adattamento e si nota continuamente che quello che stiamo guardando non è altro che un riassunto del romanzo. Nonostante l’importante durata di 157 minuti, che ne fa il capitolo più lungo di tutta la saga, si va costantemente con l’acceleratore o meglio, ci si sofferma in momenti poco significativi e si corre in altri che ci sembrano chiave. E così abbiamo la storia idealmente divisa in due macro-tranche: la prima parte è dedicata ai 10° Hunger Games, la seconda all’avventura di Coriolanus nei Distretti.
La prima parte, che è la migliore perché meglio calibrata, ci appare come un horror mancato perché punta su una brutalità mai vista prima, con personaggi mutilati e grotteschi che sembrano usciti da un film di Tobe Hooper. Allo stesso tempo, però, non c’è l’ombra di uno schizzo di sangue per non uscire fuori dai confortevoli limiti del PG-13 e il risultato è davvero innaturale e straniante.
In questa ampia tranche, viene a delinearsi il rapporto tra Coriolanus, interpretato da un anonimo Tom Blyth, e Lucy Gray, che ha il volto (e la voce) di Rachel Zegler (West Side Story). Lui è un algido nobile dal capello ossigenato che pian piano apre il suo cuore alla bella hippie del Distretto 12 e intuisce le potenzialità mediali degli Hunger Games; lei è un’antipaticissima “figlia dei fiori” che vuol sembrare altruista ma è palesemente solo interessante a dar mostra delle sue doti canore. Tra i due personaggi, vuoi per una scrittura poco approfondita, vuoi per delle scelte di casting poco azzeccate, non c’è alcuna chimica e il progressivo innamoramento appare forzatissimo. Ma ancor più forzato è il repentino cambio di personalità di Coriolanus che deve trasformarsi nel cattivo che abbiamo conosciuto con il volto di Donald Sutherland e così, con poca coerenza tra una sequenza e l’altra, muta il suo carattere in cinico e opportunista senza una vera continuità logica.
Di Hunger Games rimane il grande potere di critica ai mass media, su come i potenti abbiano modo di manipolare le masse attraverso i mezzi di comunicazione, di creare consenso sfruttando simboli costruiti a tavolino per questo specifico scopo. Suzanne Collins è riuscita a rendere questi concetti incredibilmente attuali con quella semplicità e senso del trasporto tipici dei grandi racconti popolari e i film hanno trasmesso questo valore aggiunto. In La ballata dell’usignolo e del serpente, però, si nota una scrittura troppo frammentaria, una reale difficoltà nell’adattare un romanzo ampio e stratificato che di base è la genesi di un villain; a questo punto, ci si chiede se, una volta tanto, non sarebbe stato più adatto allo scopo il formato della miniserie televisiva.
Roberto Giacomelli
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