I Am Mother, la recensione

“Luke, sono tuo padre”
Frase più nota, forse, non esiste.
Una notizia sconvolgente, una saga unica, una rivelazione che rimarrà negli annali della storia del Cinema.
Con le dovute proporzioni, I Am Mother sarebbe potuto essere un piccolo cult, proprio come al tempo si rivelò Star Wars.
Dovute proporzioni, dicevamo.
In questo caso la qualità della messa in scena, della computer grafica e del robot-madre, vera protagonista indiscussa, è inversamente proporzionale alla storia che sa purtroppo di già visto e che non lascia un ricordo che sia positivo.
Ma andiamo per gradi.
Il film (della durata di circa due ore) inizia in medias res. Sulle commoventi noti di Moon River vediamo lei, la robot-madre che si prende cura di una splendida bambina: la riscalda, la coccola, la accudisce.
Il mondo fuori è finito, la razza umana è estinta.
Rimane una flebile, unica, speranza: un bunker con sessantatremila embrioni umani “pronti” a ripopolarla.
Madre (voce di Rose Byrne) e Figlia (Clara Rugaard) “crescono”, interagiscono e diventano a tutti gli effetti una vera e propria famiglia.
Figlia cresce sana, forte, super intelligente e continuamente messa sotto esame da Madre, che diventa una figura pregnante e imprescindibile: mamma, maestra, consigliera, amica.
Un giorno, però, come tutte le cose belle e gli idilli non destinati a durare, una misteriosa donna, interpretata da Hilary Swank, “bussa” alla porta del bunker e mette in discussione tutte le certezze di Figlia.
Tra misteri, fiducie crollate e sguardi che dicono tutt’altro, il film prosegue con andamento frastagliato, fatto di momenti adrenalinici e scene molto più calme, distese, piene di dialoghi per cercare di far capire gli orrori e le brutture del mondo esterno.
Il film richiama tanti stilemi e tante cifre del cinema di fantascienza del passato: Alien, 2001: Odissea nello Spazio, Passengers, District 9 e tanti, tantissimi altri.
Il regista Grant Sputore (anagrammando il cognome avrebbe potuto dare, in senso positivo, un bell’aggettivo al film e invece…) sceglie uno stile citazionista, minimalista e quindi dettato dal budget esiguo destinato al film.
Si tratta della classica opera che lascia un po’ d’amaro in bocca, troppi “vorrei, ma non posso”, troppi “perché mai non è andata così?” e, quindi, rimane nel limbo dei film carini del sabato sera guardati con non troppa attenzione.
Peccato, perché la storia (se affrontata con il giusto effetto “drama”) e gli effetti speciali, uniti alla prova fisica di Luke Hwaker, l’attore che impersonifica Madre, avrebbero potuto dar vita ad un nuovo piccolo cult di genere…
Fabrizio Vecchione
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