Il capitale umano, la recensione
Quanto vale la vita di un uomo?
Una domanda a cui apparentemente non si può dare risposta, perché si sa, la vita non ha prezzo e se lo avesse sarebbe inestimabile. Eppure non è così, la vita di un uomo è economicamente quantificabile, esistono precisi procedimenti che ne stabiliscono il valore e che scaturiscono da determinate variabili. Ma questo è solo il punto d’arrivo del nuovo film di Paolo Virzì, Il capitale umano, che segue una struttura elaborata e ricca di spunti narrativi senza perdere mai di vista una visione nerissima della società contemporanea, così gretta, immorale ed economico-centrica da essere in grado, appunto, di monetizzare qualsiasi cosa, anche la vita.
Partendo da un romanzo di Stephen Amidon, Virzì ci racconta la vita di due famiglie dell’alta Lombardia, i Bernaschi e gli Ossola, di estrazione sociale differente, collegati dal fatto che i loro figli hanno una relazione. Carla Bernaschi (Valeria Bruni Tedeschi) è un’ex attrice di teatro, ricca e annoiata, legata a Giovanni (Fabrizio Gifuni), uomo d’affari appartenente a una importante famiglia, e passa gran parte del suo tempo in trasferta occupato dal suo lavoro. Dino Ossola (Fabrizio Bentivoglio) è separato dalla moglie e ora convive con la nuova compagna Roberta (Valeria Golino), ha un’agenzia immobiliare sull’orlo del fallimento e per questo decide di mettersi in affari con Giovanni, investendo un patrimonio che in realtà non ha. Massimiliano Bernaschi (Guglielmo Pinelli) e Serena Ossola (Matilde Gioli) hanno una relazione, entrambi sono oppressi dalle loro famiglie e reagiscono in maniera differente, cercando di assecondare le aspirazioni dei loro genitori o ribellandosi ad essi. Una notte, durante le feste di Natale, i Bernaschi e gli Ossola si trovano riuniti a una cerimonia ma il destino vuole che per motivi differenti alcuni di loro debbano assentarsi. Quella stessa notte un uomo muore, investito da un’auto in corsa. Ma chi è il misterioso pirata della strada? E che cosa lo ha portato a commettere un omicidio?
Paolo Virzì cambia completamente genere. Conosciamo il cinema di questo regista livornese per le commedie: brillanti, amare, politiche, moraliste, generazionali… tante accezioni differenti, ma sempre commedie. Con Il capitale umano il regista di Ovosodo decide di confrontarsi con un thriller, ma forse definire questo film thriller è riduttivo perché mescola al suo interno suggestioni provenienti da filoni e generi differenti. Fondamentalmente si tratta di un film drammatico, affollato da vite che stanno deragliando, a volte con toni sarcastici e ironici, a volte più drammatici; poi si sprofonda nel giallo, un whodunit in cui si punta alla ricerca di un colpevole, un assassino, e al suo movente. Per unire queste antitetiche suggestioni, Virzì utilizza però il linguaggio del thriller “all’americana” ma fortemente italianizzato, grazie a tipologie caratteriali ed eventi che richiamano fondamentalmente ed efficacemente il Belpaese catturato in un dato momento storico.
Il capitale umano, essedo scritto da un autore americano, era originariamente ambientato nel Connecticut e descriveva un’alta borghesia tipicamente americana, con un broker dell’alta finanza che si spostava dal paese di provincia a New York per mettere a segno i suoi affari. Nell’adattamento italiano il paese di provincia, suggestivamente immerso nella neve, è nella Brianza, a nord di Milano, e proprio la capitale lombarda è il centro nevralgico dell’economia attorno a cui tutto ruota. Si tratta di un’Italia contemporanea, quindi avvolta dalla crisi, con famiglie abituate a determinati tenori di vita e gettate all’improvviso sul lastrico a causa di fallimenti e retrocessioni bancarie. Uno sguardo alla contemporaneità che se sulla carta potrebbe apparire banale sullo schermo non lo è affatto, grazie all’abilità di sceneggiatori e interpreti di caratterizzare dei personaggi in maniera originale e di metterli in contatto tra loro abilmente e tessendo vicende appassionanti.
Sicuramente una preziosa freccia nell’arco di questo film è la struttura ad incastro che caratterizza la vicenda. Il centro di tutta la storia è la fine, ovvero la morte dell’uomo, e l’intero film è costruito in modo tale che possiamo arrivare a quel momento riavvolgendo il corso degli eventi, raccontandoci cosa ha portato a quella tragica notte. Un lungo flashback strutturato in tre atti, ognuno dei quali segue un diverso personaggio: il “traffichino” Dino Ossola che deve guadagnarsi la fiducia dei Bernaschi, l’annoiata Carla Bernaschi che vuole ristrutturare un teatro in disuso e la problematica Serena Ossola, che intesse una relazione segreta con il disadattato Luca (Giovanni Anzaldo). Una sorta di Rashomon in cui ognuno ha una versione differente della stessa storia, fino allo svelamento finale, non troppo sorprendente a dire il vero ma in cui tutto torna in maniera soddisfacente. L’unica cosa che non convince è l’utilizzo di un paio di espedienti mirati ad agevolare l’incastro degli eventi e incanalarli verso la soluzione, come la scena del computer sul finale, che sanno di artificioso.
Una regia solida che punta tutto sulla freddezza degli animi, delle situazioni e degli ambienti, una buona sceneggiatura – che in Italia, ahinoi, è cosa sempre più rara – scritta dal Francesco Bruni di Scialla e Francesco Piccolo, e un ottimo cast che ha come punte di diamante Fabrizio Bentivoglio e Valeria Bruni Tedeschi, anche se va sicuramente menzionata la grande espressività di Matilde Gioli, qui alla sua prima esperienza cinematografica. Un prodotto diverso all’interno del piatto e commediocentrico panorama italiano che racconta con efficacia e originalità il peggio della società contemporanea.
Roberto Giacomelli
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