Laissez bronzer les cadavres, la recensione

Dopo essere stato presentato in numerosi Festival di tutto il mondo, Laissez bronzer les cadavres (Francia/Belgio, 2017) dei registi belgi Hélène Cattet e Bruno Forzani ha conosciuto la sua prima visione in Italia: è stato proiettato sabato 13 ottobre nella sezione Fuori Concorso del TOHorror Film Festival, prestigiosa kermesse torinese dedicata al cinema e alla cultura horror, thriller, noir e fantasy in genere.

L’universo estetico e narrativo della coppia Cattet/Forzani è qualcosa di estremamente vasto e complesso, un Cinema d’Arte che diventa difficile da descrivere a parole (va visto più che spiegato), si inserisce nei generi e li fa deflagrare dall’interno, ricreando una materia visiva che va oltre ogni genere e assurge ad Arte, puro Cinema d’Autore: paradossalmente, è un tipo di cinema per certi versi razionale – cioè studiato artisticamente in modo maniacale nelle singole inquadrature, nel montaggio e nella musica – ma che nel complesso sfugge a ogni tentativo di spiegazione logica. Dopo Amer e L’étrange couleur des larmes de ton corps, rielaborazioni in chiave artistica e onirica del thriller all’italiana che si inseriscono nel cosiddetto filone del neo-giallo, Cattet e Forzani cambiano (parzialmente) il genere, immergendosi nel noir contaminato col thriller, un polar dove la crime-story e le scene d’azione si alternano con potentissime sequenze surreali che sfiorano in più occasioni l’elemento orrorifico.

Il soggetto è tratto dal romanzo omonimo (1971) di Jean Patrick Manchette e Jean-Pierre Bastid, pubblicato in Italia da Le edizioni del Capricorno col titolo Che i cadaveri si abbronzino, e qui adattato nella sceneggiatura dagli stessi registi. In una località sperduta della Corsica vive Luce (Elina Löwensohn), una pittrice disinibita e abituata a ricevere ospiti bizzarri, insieme al compagno e scrittore Max Bernier. Da lei giungono Rhino (Stéphane Ferrara) e i due membri della sua gang, Gros (Bernie Bonvoisin) e Alex, insieme all’avvocato Brisorgueil: il gruppo pianifica e realizza una sanguinosa rapina a un furgone carico d’oro, per poi nascondersi presso Luce e progettare la fuga. Ma il loro piano è mandato a monte a causa di visite impreviste: l’ex moglie di Bernier col figlio e la domestica – terzetto in fuga dal nuovo marito – e due poliziotti. Dopo la scoperta del covo dei banditi, si scatena una lotta di tutti contro tutti: il poliziotto rimasto in vita ingaggia un assedio con la banda, a sua volta divisa per il tradimento dell’avvocato, mentre gli ostaggi cercano di sopravvivere al fuoco incrociato.

Raccontata così, potrebbe sembrare la trama di un classico film noir, sulla scia di modelli come Cani arrabbiati di Mario Bava, Le iene di Quentin Tarantino e innumerevoli polar. In realtà, qualsiasi materia passi tra le mani dei due registi belgi, cambia completamente forma e sostanza, trasformandosi in qualcosa di diverso rispetto a ciò che possiamo immaginare. Così come Amer e L’étrange couleur des larmes de ton corps erano gialli molto sui generis, sofisticate rielaborazioni stilistiche dei classici del thriller italiano, così Laissez bronzer les cadavres è un unicum, un noir che si svolge in ambienti da western contemporaneo e si trasforma presto in un’orgia visiva pop, psichedelica e coloratissima.

Tutto il film si svolge in un paesino in rovina, arroccato su un’altura in riva al mare: per la maggior parte della storia narrata, il paesaggio è arso dal sole, avvolto in una luce abbacinante (ricorda molto il secondo episodio di Amer), il tutto valorizzato dalla splendida fotografia di Manuel Dacosse, che con i suoi colori saturi mette in risalto il blu del cielo e del mare, l’ocra della terra, il rosso del sangue e tutti gli altri colori che vengono scaraventati in faccia allo spettatore. Perché il colore acceso è uno dei tratti distintivi di Laissez bronzer les cadavres, anche nella seconda parte, quando scende il buio e le scene sono dominate dal rosso delle fiamme e dal blu primario tipicamente baviano e argentiano (l’utilizzo dei colori primari è alla base dei primi due film della coppia), per poi tornare agli abbaglianti colori giornalieri nel memorabile finale.

Fin dall’inizio vediamo schizzi di vernice colorata, che più avanti nell’omicidio di Gros si trasformeranno in schizzi di vernice dorata mista a sangue – possiamo dire che Cattet e Forzani hanno inventato un nuovo tipo di splatter, dove il rosso del sangue si mescola e si alterna ad altri colori. Anche i titoli di testa, che si svolgono ben dieci minuti dopo l’inizio, una volta compiuta la rapina a suon di piombo rovente, sono colorati in modo sfrenato, con le immagini della fuga virate in rosso, verde e giallo sulle note di Faccia a faccia di Ennio Morricone, tratto dall’omonimo western di Sergio Sollima. Un altro carattere tipico del film, come dei due precedenti, è infatti il massiccio e creativo utilizzo nella colonna sonora di brani tratti dal cinema bis italiano degli anni Sessanta e Settanta, a testimonianza di come il nostro cinema di genere abbia lasciato una traccia indelebile nell’immaginario artistico di numerosi registi.

Le inquadrature sono quelle tipiche del cinema di Cattet e Forzani: i campi medi e lunghi sono alternati a primi piani e dettagli, per i quali i due registi sembrano avere una particolare ossessione; dettagli su occhi e bocche in stile Sergio Leone, tutto montato freneticamente e allegoricamente da Bernard Beets, fra bocche che masticano o fumano sigari, occhi che guardano, mani che impugnano pistole e mitra (c’è un notevole feticismo nella messa in scena delle armi), spari, bagliori, proiettili, esplosioni di luci e altro ancora, in un vortice di energia cinetica senza sosta, in cui la frenesia del montaggio è alternata a ralenti enfatizzanti e inquadrature complesse da autentica video-arte.

Seguire la trama di Laissez bronzer les cadavres, così come dei due neo-gialli, non è semplice – anche se qua la vicenda è un po’ più lineare – ma la sceneggiatura non è l’elemento primario, pur contando su un solido impianto noir. L’andamento narrativo è scandito dalla progressione oraria, con scritte rosse su sfondo nero, ma il tempo non è lineare, piuttosto segue gli esempi pulp tarantiniani de Le iene, Pulp Fiction e Jackie Brown, con gli stessi eventi mostrati successivamente da vari punti di vista – dunque, una sorta di tempo circolare in cui scopriamo solo man mano tutto ciò che è accaduto.

Eppure non sarebbe corretto definirlo come un pulp, visto che fra una sparatoria e l’altra – e da un certo punto in poi si spara quasi senza sosta – la regia introduce squarci onirici, surreali e visionari che lasciano spiazzato lo spettatore, il quale da un momento all’altro si trova proiettato da un noir a scene che paiono uscite dai film surrealisti più estremi di Luis Buñuel, Alejandro Jodorowksy, Fernando Arrabal e Alberto Cavallone (c’è persino un amplesso con una carcassa animale). Dunque, distese coperte da croci, mani e teste di manichini che spuntano dalla sabbia, una statua di cavallo con un teschio umano, e infine Lei, l’imprecisata e metaforica divinità femminile che vediamo più volte comparire sulle note avvolgenti di Sunny Road to Salina di Cristophe, dal film Quando il sole scotta di Georges Lautner: mai inquadrata in volto, la vediamo bagnare o bruciare i nidi di formiche che rappresentano i protagonisti, ricoperta di vernice d’oro come Shirley Eaton in 007 Missione Goldfinger, appesa, spremuta con delle corte fino a far sgorgare champagne da un capezzolo, addirittura la vediamo orinare addosso a una delle figure maschili che la attorniano come schiavi.

Tutto incredibilmente assurdo, tutto incredibilmente bello da vedere: Laissez bronzer les cadavres richiede allo spettatore di uscire dai canoni classici del cinema, per abbracciare una fusione panica di innumerevoli elementi visivi e sonori; certo, la vicenda noir si lascia seguire e appassiona lo spettatore, fra sparatorie, sangue, stalli alla messicana e personaggi ben costruiti, ma non è la cosa più importante, perché la regia sembra recuperare una concezione primigenia del cinema come pura Arte Visiva. E quando, sul duello finale tra Rhino e il poliziotto, inizia la nenia infantile di Chi l’ha vista morire? di Aldo Lado (Canto della campana stonata di Ennio Morricone), non si può fare altro che applaudire, perché solo un genio poteva concepire qualcosa di simile.

Davide Comotti

PRO CONTRO
  • Visivamente spettacolare come paesaggi, colori e fotografia.
  • Utilizzo di inquadrature raffinatissime.
  • Solida fusione tra impianto noir e cinema sperimentale.
  • Potentissime scene surrealiste.
  • Colonna sonora strepitosa, con recupero di brani in scene incredibili.
  • Non è necessariamente un difetto, visto il tipo particolare di film, ma seguire la vicenda e i personaggi non è sempre semplice a causa del ritmo frenetico.
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