Lightyear – La vera storia di Buzz, la recensione

Nel corso di una delicatissima missione spaziale, lo Space Ranger Buzz Lightyear ha sulle proprie spalle il destino di un’intera comunità. Insieme alla collega Alisha Howthorne, Buzz ha il compito di esplorare un pianeta sconosciuto e scoprire se questo può essere idoneo alla vita umana. Tuttavia durante un’azione di decollo, a seguito di un errore di valutazione che si rivelerà fatale, Buzz  porta l’intera stazione spaziale a schiantarsi contro il pianeta danneggiando in modo estremamente grave il motore dell’astronave. Adesso Buzz e Alisha, così come tutto l’equipaggio, sono bloccati sul nuovo pianeta e Buzz, sentendosi responsabile dell’accaduto e fedele all’orgoglio di Space Ranger, è determinato a porre rimedio da solo alla situazione. Riparato il nucleo del motore che permette all’astronave di viaggiare in ipervelocità, Buzz deve intraprendere dei voli test attorno al pianeta per verificare il corretto funzionamento del velivolo spaziale. Ma durante ogni giro di prova, a causa dell’ipervelocità spaziale,  i quattro minuti di volo per Buzz equivalgono a quattro anni di vita sul pianeta. Così, test dopo test, Buzz vede invecchiare a vista d’occhio la sua amica Alisha e tutto il suo equipaggio rimasto sul pianeta. A seguito di continui fallimenti che si riveleranno sempre più frustranti e pericolosi per il nostro Space Ranger, volo dopo volo, Buzz si vede costretto ad affrontare una minaccia improvvisa: un esercito di pericolosi robot ha invaso il pianeta e tiene sotto scacco tutta la comunità.

Sembra che qualche ingranaggio si sia fastidiosamente inceppato nella casa delle idee Disney Pixar, perché da qualche annetto a questa parte quel meraviglioso studio che ha prodotto in successione film d’animazione bellissimi, tanto rivoluzionari sul piano della tecnica quanto su quello contenutistico, sembra adesso faticare a ritrovare un soggetto davvero forte che possa competere anche solo con i suoi recenti classici come Inside Out o Coco.

Certo, nel 2020 abbiamo avuto Soul che si poneva come manifesto di quella volontà squisitamente Pixar nel produrre film d’animazione concettuali e desiderosi di parlare ad un pubblico prevalentemente adulto, ma anche in quel caso, nonostante l’innegabile bontà del prodotto, veniva meno quella freschezza e quella sincerità emotiva a cui la Pixar ci ha abituati per tanto, troppo tempo. E così, dopo i poco incisivi Luca e Red, lo studo Disney Pixar pensa bene di inseguire un trend del momento, quello fondato sul fattore nostalgia nei confronti dei cult del passato, e così pensa bene di rimettere mano ad uno dei suoi franchise più famosi e fortunati: Toy Story.

Ma come si può portare avanti in modo originale un franchise che ormai ha detto tutto e di più e che si è chiuso perfettamente nel 2019 con il bellissimo e commovente Toy Story 4?

Disney Pixar ha individuato la giusta risposta in uno spin-off decisamene anomalo che individua il suo maggior punto di forza e la sua vera ragion d’esistere proprio nell’idea di base.

Il mondo di Toy Story, o per meglio dire una parte di quel mondo, torna a rivivere sul grande schermo grazie ad un racconto sci-fi ambientato tra le stelle che non ha nulla a che vedere con il mondo dei giocattoli. Una scelta sicuramente audace e al tempo stesso brillante.

Un cartello in apertura del film, infatti, ci ricorda che nel 1995 un bambino di nome Andy Davis ha ricevuto come regalo di compleanno un giocattolo di Buzz Lightyear tratto dal suo film preferito. Quello che segue è proprio quel film.

Dietro quest’intuizione squisitamente metacinematografica si nasconde il più grande plauso da rivolgere al film, estendere il mondo di Toy Story andando ben oltre l’universo del giocattolo. Un modo molto intelligente di unire il presente con il passato, dialogando serenamente con i bambini di oggi e con i loro genitori, che ieri erano bambini e che con grosse probabilità sono cresciuti divertendosi ed emozionandosi con le avventure di Buzz e Woody.

Lightyear – La vera storia di Buzz dà perciò in pasto allo spettatore un’avventura completamente nuova, un film assolutamente slegato da ogni logica narrativa dettata dalla serialità ma, al tempo stesso, possiede tutti gli escamotage per poter giocare con i ricordi di quegli spettatori che erano bambini quando usciva nelle sale Toy Story – Il mondo dei giocattoli e che, crescendo, hanno avuto modo di imparare a memoria ogni singola battuta di quel gioiello d’animazione.

Soprattutto nella prima parte del film – che senza alcun dubbio è quella più riuscita – Lightyear – La vera storia di Buzz si abbandona ad un gustoso e intelligente fanservice nei confronti della saga iniziata nel 1995. E così l’entrata in scena di Buzz, intento a scoprire le caratteristiche abitative del nuovo pianeta, rievoca in modo fedelissimo l’entrata in scena dello Space Ranger nel primo Toy Story quando, alla stessa maniera e con le stesse battute, si apprestava a conoscere e ad annotare le caratteristiche del nuovo mondo che, altro non era, il letto della cameretta del piccolo Andy.

Ma le strizzatine d’occhio alla saga dedicata al mondo dei giocattoli che ha reso grande lo studio Pixar non si fermano di certo a questo e si riflettono di continuo nel carattere del suo protagonista, nella sua testardaggine unita alla sua fallibilità, nel look della tuta da Space Ranger (con tanto di stessi adesivi), nelle “armi” in dotazione e persino nella struttura di un’astronave spaziale che rievoca fedelmente la confezione in cui era custodito il giocattolo di Buzz Lightyear nel primo Toy Story. E poi certo, ovviamente non poteva mancare quella frase che è ormai entrata nell’immaginario collettivo di tutti coloro che hanno vissuto la propria infanzia durante gli anni Novanta: Verso l’infinito e oltre!

C’è molto cervello dietro Lightyear – La vera storia di Buzz e si lascia apprezzare in pieno anche questa volontà di far dialogare l’animazione mainstream con un genere ben preciso: lo sci-fi. Lightyear è una space opera a tutti gli effetti, un film di fantascienza che riesce a trovare un compromesso tra il modo in cui si narrava il genere negli anni ’60 e ’70 (c’è tanta fantascienza vintage nel film, soprattutto per i temi trattati) e il modo in cui gli Studios ce lo raccontano oggi, abbandonandosi quasi completamente a sequenze action dal ritmo forsennato.

Nel suo voler fare, dunque, un tributo alla fantascienza di ieri ma anche a quella di oggi, Lightyear – La vera storia di Buzz riesce anche nell’impresa (che è sempre stata una missione tipica del genere) di accennare una lieve riflessione sul nostro passato recentissimo: quello in cui l’umanità è stata costretta a vivere in isolamento a causa della pandemia da covid-19. Essendo un film che, a tutti gli effetti, è stato lavorato durante il periodo pandemico, Lightyear riflette moltissimo sul concetto della solitudine e non è un caso se i nuovi abitanti del pianeta, per sfuggire alla minaccia dei robot, hanno edificato una cupola gigante che li tiene protetti nei confronti di un mondo esterno in cui non è sicuro vivere. Così come uno dei temi portanti del film è il gioco di squadra, in netta contrapposizione alla solitudine e all’individualismo: solo collaborando con il prossimo si può riuscire in un’impresa impossibile. Solo così facendo possono nascere gli eroi.

Come si può capire sono tante le qualità insite in Lightyear – La vera storia di Buzz eppure, alla fine della corsa, il film riesce ugualmente a lasciare un po’ d’amaro nella bocca dello spettatore restituendo l’idea della così detta occasione mancata. E dispiace moltissimo riconoscere questa cosa, perché davvero questa volta gli elementi c’erano tutti per poter assistere alla nascita di un nuovo cult.

Lightyear – La vera storia di Buzz suggerisce l’idea di una grande storia sviluppata e narrata con estrema pigrizia. Il classico studente bravo ma che non si applica. Perché con tutti questi elementi al suo interno e dopo un primo atto sorprendente che è sia un inno al personaggio di Buzz quanto alla fallibilità dell’essere umano, non è accettabile che il film possa accontentarsi di ridursi ad una sequela continua di scene action inframmezzate da siparietti divertenti (tanti, troppi!) che spesso falliscono nella gestione della comicità.

La missione che Buzz deve affrontare per redimere la sua immagine di Space Ranger ha del tragico, perché deve decidere se accettare il fallimento o puntare a diventare un eroe (verso l’infinito e oltre, appunto) con l’inevitabile rischio di perdere tutte le persone che ama. Una dura riflessione sul concetto d’eroe, che si mescola a nozioni (fanta)scientifiche legate allo scorrere del tempo e a come questo può agire sul nostro essere. Tutti concetti interessanti e profondi che però Angus MacLane, che aveva già diretto il sottovalutato Alla ricerca di Dory, non riesce a trattare con la giusta attenzione. Lightyear – La vera storia di Buzz resta superficiale in tutto ed approccia la storia con un piglio così ludico e devoto all’azione da svilire completamente il significato d’ogni cosa.

Ma forse il più grande difetto di Lightyear – La vera storia di Buzz è la gestione dei personaggi di contorno. Dunque la scrittura, che da sempre è un punto di forza delle produzione a marchio Pixar. Se in Alla ricerca di Dory Angus MacLane era riuscito a lavorare molto di fino con i caratteri secondari, restituendo un affresco originale di personaggi “difettosi”, in Lightyear ciò non avviene. Assolutamente. Fatta eccezione per Buzz, il cui costrutto caratteriale è fortemente ereditato dalla saga Toy Story, e fatta eccezione per l’adorabile Sox, il gatto robotico che viene donato allo Space Ranger per migliorare il suo umore (una sorta di RD-D2 che sa farsi protagonista di alcuni dei momenti più divertenti del film), tutti gli altri risultano ridotti a sterili macchiette. Dispiace che il film non sia riuscito a lavorare di fino su personaggi dal grande potenziale come Izzy Hawthorne, nipote della migliore amica di Buzz, ma soprattutto fa rabbrividire la pessima delineazione dei personaggi “comici” dell’avventura: Mo Morris e Darby Steel, assolutamente bidimensionali e insopportabili nel loro dover ricorrere alla comicità (spesso stupida) in ogni momento.

In definitiva Lightyear – La vera storia di Buzz è una grossa occasione mancata. Un’operazione che sa sicuramente intrattenere, che riesce a strappare più di qualche sorriso e a giocare con intelligenza con i ricordi di certo pubblico affezionato. Ma una space opera interamente dedicata allo Space Ranger più amato del cinema avrebbe meritato ben altro respiro e ben altra ambizione. “Verso l’infinito e oltre” diventa, questa volta, una promessa non mantenuta. Piuttosto ci troviamo dalle parti del cinico ma realista commento di Woody enunciato dopo il primo volo dello Space Ranger nella cameretta di Andy: Questo non è volare. Questo si chiama cadere con stile.

Ed è questo che Lightyear – La vera storia di Buzz fa: mira alle stelle ma manca il suo obiettivo. Perciò cade a terra. Ma cadendo conserva comunque un suo stile.

Giuliano Giacomelli

PRO CONTRO
  • L’intuizione metacinematografica posta alla base del film.
  • Un film che si allaccia all’universo di Toy Story è un pro a prescindere.
  • Una space opera che riesce ad unire la fantascienza di ieri con quella di oggi.
  • Sox è un personaggio che si lascia ricordare.
  • Una pigrizia generale nella gestione del racconto.
  • Tanto ritmo, troppo, a discapito dell’approfondimento dei contenuti.
  • I personaggi secondari sono davvero mal scritti e insopportabili.
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