L’ultimo lupo, la recensione
L’avventura di Jean-Jacques Annaud con L’ultimo lupo è cominciata ben sette anni fa, quando il regista di Il nemico alle porte ebbe la visita di alcuni produttori cinesi che gli chiesero di dirigere il film tratto dal best seller di Jiang Rong. Annaud conosceva bene il romanzo Il totem del lupo già dai tempi in cui girava in Germania Il nome della rosa e trovava le tematiche trattate da Rong molto affini al suo modo di raccontare, nonché familiari alla sua esperienza personale. Lo stesso regista, infatti, racconta che le vicende del giovane protagonista del romanzo, un ragazzo istruito che si trova in una zona inospitale della Mongolia per studio, gli ricordarono la sua giovinezza in Camerun a fine anni ’60, quando stava per girare il suo primo film. Le premesse, dunque, che portano un regista dall’importante caratura come Annaud a prendere le redini di un progetto come L’ultimo lupo sono delle migliori, considerando, poi, che tra i film più intensi e memorabili del regista francese ci sono L’orso e Due fratelli, di cui L’ultimo lupo rappresenta un’ideale continuazione.
A conti fatti, però, L’ultimo lupo non soddisfa in pieno, deludendo le aspettative che si potrebbero avere per un ritorno di Annaud a raccontare la natura e gli animali. Perché, grazie a L’orso e Due fratelli, abbiamo potuto constatare che il regista di Sette anni in Tibet è un vero maestro nel raccontare una storia dal punto di vista degli animali, con un tocco etologico particolarissimo che punta sull’emotività senza mai scadere nel facile patetismo. Con L’ultimo lupo c’è una volontaria scelta di virare altrove e sebbene ci sia una logica ambientalista che ci porta a parteggiare per i “cattivissimi” lupi, la storia tiene i magnifici animali come contesto per raccontarci invece la curiosità di uno studioso alle prese con una cultura per lui nuova.
Il film ci parla, infatti, della vicenda di Chen Zhen, un giovane studente di Pechino, che si avventura nella steppa mongola per insegnare a una tribù nomade di pastori. Qui è incuriosito dall’accanimento che c’è verso i lupi, perseguitati sia dai pastori che dal governo cinese, che ha istituito una branca della polizia addetta allo sterminio di questi animali che minacciano le colture locali. Chen trova un lupetto e decide di tenerlo dietro il permesso del capo della polizia, ma la presenza di questo animale mette in crisi la sua convivenza con la tribù.
Annaud rimane fedele al romanzo di Jiang Rong pur rielaborando il tutto attraverso il suo amore per la natura e questo rende giustizia alla necessità narrativa di girare il film in Mongolia, con gli splenditi paesaggi: le radure sterminate, la steppa che di giorno e notte è sempre magnificamente fotografata e inquadrata da un occhio palesemente innamorato di quei luoghi.
Ma ecco, chi si aspettava di vedere una variante de L’orso con i bellissimi lupi della Mongolia rimarrà deluso perché Annaud pone l’attenzione più sulla tribù che accoglie Chen e le loro tradizioni che sui canidi che danno titolo al film. Il rispetto misto a paura che alberga negli animi dei nomadi è centrale nella storia e l’osservatore Chen assiste ai loro rituali che tendono a giustificare con una filosofia spirituale la loro caccia e sterminio dei cuccioli di lupo. Contrapposti ai pastori, ci sono gli addetti del governo alla bonifica dell’area, che invece non trovano nulla di “nobile” nell’uccisione degli animali, prendendo questo compito come un semplice ordine da eseguire. Ovviamente Annaud ci fa affezionare ai lupi anche se non li vediamo mai protagonisti e le motivazioni che spingono i nomadi ad agire, pur nel rispetto della loro cultura e nella spietatezza del loro agire, hanno un chè di epico ma anche di risibile, a differenza dell’azione governativa inquadrata da un punto di vista più condannabile.
La regia elegante e attentissima, vero marchio di un grande del cinema internazionale come Annaud, è accompagnata però a una sceneggiatura, scritta dallo stesso regista insieme ad Alain Godard, Lu Wei e John Collee, che lascia un po’ a desiderare per la mancanza di un giusto sviluppo dei personaggi. I comprimari sono del tutto evanescenti (l’amico di Chen, la ragazza della tribù di cui sembra essere innamorato) e lo stesso protagonista non va oltre il mero osservatore, senza una reale costruzione psicologica che si estenda al di là dell’affezione per il lupetto. Inoltre anche gli attori chiamati a recitare non sono proprio il top che si potesse chiedere e Shaofeng feng – che abbiamo visto anche in Young Detective Dee: Rise of the Sea Dragon di Tsui Hark – non dona al protagonista quell’intensità che un film che gioca anche sull’emotività avrebbe richiesto. Ma c’è da dire che abbiamo visto il film doppiato in italiano e, come spesso accade per i film cinesi, la traduzione smorza molto il valore recitativo.
L’ultimo lupo è stato girato in 3D per buona parte delle sue scene (alcune in 2D e poi convertite in postproduzione), ma purtroppo la stereoscopia non è molto percepibile e ad eccezione di un paio di occasioni in cui i lupi sembrano usufruire di un effetto pop-up, il film gioca pochissimo con la profondità di campo, cosa che, al contrario, avrebbe potuto sfruttare data l’alta percentuale di riprese in esterni.
L’ultimo lupo, dunque, non è né L’orso né Due fratelli, ma un film che utilizza l’immagine del lupo per raccontarci usi e costumi dei nomadi della Mongolia sul finire degli anni ’60 del ‘900. Un film dal suo vigore, soprattutto visivo (bellissima la scena della fuga dei cavalli in mezzo al ghiaccio), che però tentenna sotto l’aspetto più meramente narrativo e soprattutto nella costruzione dei personaggi.
Gradevole ma da Annaud ci si poteva aspettare di più.
Roberto Giacomelli
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