Maradonapoli, la recensione
È una storia d’amore, per niente platonica. È un film politico. C’è anche una spolveratina di melodramma e non potrebbe essere altrimenti dato lo sfondo. Maradonapoli, evento speciale, è un documentario diretto da Alessio Maria Federici, in sala dal 1 al 10 maggio. È un titolo bello, strano, vero. Racconta molto più di quanto non sembri.
La suggestione è quella di una simbiosi, di un legame imprevisto e fortissimo fra il più grande calciatore di tutti i tempi e la città e il popolo che lo hanno cullato, stregato, magari anche soffocato d’amore.
A partire da quel 30 giugno 1984, il giorno in cui il Napoli acquista Diego Armando Maradona e la frenesia di quei momenti è restituita, in apertura del film, da un riuscitissimo montaggio frenetico che alterna reazioni di testimoni d’epoca che oscillano fra l’incredulità, lo stupore, l’eccitazione e ancora l’incredulità, oltre quel 30 giugno, per i sette anni successivi e non solo.
Il minimo comun denominatore di questa storia è forse l’eccesso. L’eccesso dei sentimenti, delle contraddizioni, le enormi contraddizioni, la dilatazione della personalità, la teatralità.
Diego Armando Maradona è, senza possibilità di discussione, il calciatore più “cinematografico” di tutti i tempi. Il suo talento larger than life, la sua doppia vita fuori e dentro il campo, l’ascesa e le cadute rovinose, le improbabili ma benvenute resurrezioni, una carica politica che non può non far pensare all’altro grande grandissimo nome dello sport del XX secolo, quel Muhammad Ali la cui politicità era però, rispetto all’argentino, più consapevole, più ragionata, fanno da testimoni ad una traiettoria irripetibile e “succosa”. Un carisma fuori discussione. Qualcuno se n’è già accorto (Kusturica, Sorrentino), qualcun altro se ne accorgerà in futuro. Eppure tutto questo in Maradonapoli non c’è. O meglio, non c’è direttamente.
Lo stesso calciatore argentino è una presenza evanescente, quasi un fantasma. Appare per pochi istanti, intervistato da Gianni Minà, poi scompare, la voce fuori campo. Il calcio è quasi sempre sullo sfondo, e questo è voluto. Perché l’attenzione di Alessio Maria Federici si concentra sull’impatto, l’eredità, il retaggio, l’inglese legacy rende bene l’idea, che l’uomo e il calciatore hanno sulla città e la sua gente, misurati attraverso la proposizione di una serie di testimonianze che coinvolgono uomini, donne, giovani, anziani. Alcuni contemporanei, altri no.
Un appeal trasversale: c’è la Napoli popolare e quella aristocratica, il sole, il mare, i bassi. Ci sono oggetti, pensieri e ricordi e un ritratto caleidoscopico, multiforme, esagerato: Maradona il santo laico, Maradona il santo e basta, quello per cui il 30 ottobre diventa il vero giorno di Natale, Maradona Dios, Maradona che arriva a Napoli e quasi messianicamente da voce e speranza ad una città affamata di riscatto, un milione di bambini che si chiamano come lui, Maradona capopopolo, figlio prediletto ed esiliato, Maradona che va a giocare una partita dei Mondiali al San Paolo e il San Paolo tifa Argentina, e qui le giustificazioni dei testimoni sono poco convinte e non troppo convincenti.
Il film è un omaggio a un certo modo di vedere il mondo che per comodità può essere chiamato napoletanità: un’esuberanza, un gusto per la narrazione, un’espressività fuori dal comune, un bisogno nervoso di simboli e di identità, un’allegra malinconia che sono ben servite dal racconto, che sotto questo profilo funziona bene. Bernardino Zapponi, per anni sceneggiatore di Federico Fellini, raccontava di come il Maestro, prima di ogni film, venisse a Napoli a fare la “spesa” di figuranti, di comparse. La cosa non stupisce. Il problema, in Maradonapoli, sta nelle sfumature, negli spazi grigi, che sembrano mancare un po’.
Non bisogna stupirsi se il tono delle testimonianze è uniforme e concordemente elogiativo, sarebbe strano il contrario. Ma il ritmo del racconto ne soffre, alla lunga la ripetizione da monotonia nonostante la breve durata (75 minuti), si corre spesso il rischio di sprofondare nel santino.
C’è il senso di una promessa di riscatto mai veramente mantenuta, nella storia d’amore fra Napoli e Maradona, che il film evoca e poi lascia lì, senza approfondire. Giusto sul finale, un accenno a certe pieghe oscure della vita del campione che vengono passate in rassegna sotto il segno di un perdono commovente ma concesso, sullo schermo intendo, un po’ troppo sbrigativamente. Resta, in Maradonapoli, il senso di un legame fuori del comune, reso in maniera coinvolgente, anche se imperfetta.
Francesco Costantini
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