Mission: Impossible – Fallout, la recensione
Quella di Mission: Impossible è un’avventura iniziata 22 anni fa, anzi, ad essere più precisi, 52 anni fa, quando l’inconfondibile tema musicale di Lalo Schifrin scandì per la prima volta sulla CBS la sigla della serie tv di spionaggio creata da Bruce Geller. È del 1996, invece, il film diretto da Brian De Palma che ha portato l’iconico franchise sul grande schermo, ridefinendo i canoni del moderno spy-movie e legandolo inesorabilmente ai dettami dell’action. Ventidue anni e non sentirli, perché se ormai abbiamo capito una cosa di alcune saghe cinematografiche d’azione è che vale la regola del buon vino: più si invecchia più l’asticella qualitativa si alza.
Con Mission: Impossible – Fallout siamo a quota sei e, a distanza di tre anni da Mission: Impossible – Rogue Nation, torna alla regia e alla sceneggiatura l’ottimo Christopher McQuarrie, mentre a vestire i panni dello spericolato agente speciale Ethan Hunt torna l’inossidabile Tom Cruise, che ha fatto di Mission: Impossible il brand più longevo e fortunato della sua carriera.
Dicevamo che la qualità di questa saga, di film in film, sale incredibilmente tanto da aver assistito a una vera rinascita di Ethan Hunt e soci a partire dal capitolo tre, quando è entrato in gioco J.J. Abrams, che lì esordiva alla regia di un lungometraggio, dopo di che ha tenuto in mano le redini del brand grazie alla produzione della sua Bad Robot. In Mission: Impossible III si era cercato di dare il “la” a una possibile mitologia del personaggio, impresa che ha visto aggiungere tasselli di capitolo in capitolo, fino a giungere a Mission: Impossible – Fallout, appunto, che è forse il capitolo che più di ogni altro cerca una connessione seriale. Innanzitutto, si tenta – riuscendoci – di creare uno stretto proseguo alla storia di Rogue Nation portando in scena una situazione che è diretta conseguenza degli eventi narrati nel quinto film, con tanto di medesima organizzazione terroristica e la presenza di Sean Harris nei panni del villain Solomon Lane. Inoltre, si cerca un trait d’union proprio con il terzo film, riportando in ballo la vita privata di Ethan Hunt con importanti dettagli sulla donna che ha sposato, Julia Mead (Michelle Monaghan), e poi abbandonato per tenerla fuori dal pericolo. E proprio sull’umanità del protagonista risiede uno dei punti focali di Mission: Impossible – Fallout: l’eroe praticamente immortale di tante “missioni impossibili” mostra continuamente il suo “tallone d’Achille”, apparendo molto più umano di quanto lo abbiamo mai visto in questa saga. Hunt/Cruise cade, si fa male, quasi ci lascia la pelle in più di un’occasione, manda a monte un’operazione e soprattutto è tormentato dai demoni del passato che non lo fanno riposare neanche la notte, sensi di colpa e paure che completano a dovere il volto volutamente stanco di un (super) eroe.
Se l’interesse primario di McQuarrie sembra dunque essere il dono dell’umanità e della mortalità a Hunt, non meno avvincente è l’intreccio di questo sesto capitolo che è costruito come una lunga (ben 147 minuti!) corsa contro il tempo per sventare un disastroso attentato terroristico. Dopo la cattura di Solomon Lane, il gruppo di agenti segreti rinnegati noto come Sindacato si smembra per dar vita a una vera e propria cellula terroristica i cui componenti si fanno chiamare Apostoli. Il loro scopo è mettere insieme tre nuclei di plutonio per costruire un’arma atomica inarrestabile; dietro questa vicenda c’è un misterioso finanziatore, tale John Lark, a cui è possibile arrivare tramite una letale intermediaria che si fa chiamare Vedova Bianca. Per Ethan Hunt e la sua squadra sarà una missione più che impossibile, nonostante la CIA stavolta sia stata chiamata a dare una mano all’IMF: l’agente per attività speciali August Walker, infatti, affianca Ethan Hunt nella ricerca di Lark e nel tentativo di fermare gli Apostoli.
Una trama intricata che non lascia un minuto di tregua portando Ethan e il suo gruppo in giro per il mondo: Francia, Inghilterra, Pakistan, Cina, luoghi attorno ai quali vengono a crearsi scene madri davvero memorabili che tentano raggiungere nuovi limiti del cinema d’azione. Combattimenti corpo a corpo iperbolici (lo scontro nei lussuosi bagni di Parigi), inseguimenti in auto, a piedi, in moto e – madre delle scene madri – in elicottero, con la prospettiva dell’inseguito che ci racconta quanto sia complesso e studiato il film a livello di regia.
In mezzo a tanta azione e una trama da spy-story ad hoc, ci sono anche una serie di bei personaggi sempre perfettamente funzionali e ben scritti. Se la squadra di Hunt ormai la conosciamo (purtroppo stavolta è assente ingiustificato l’agente William Brandt di Jeremy Renner) e il Benji di Simon Pegg ci appare sempre più presente e necessario a stemperare la tensione, sono le new entries a lasciare il segno, in particolare l’ottimo Henry Cavill, che dà corpo all’agente della CIA pronto a spalleggiare Hunt e a farsi protagonista delle scene più adrenaliniche.
Mission: Impossible – Fallout è dunque un film che vince e convince, uno dei capitoli più elaborati, spettacolari e quindi riusciti dell’intera saga di Ethan Hunt… e se pensate che sono passati 22 anni e sei film, è un dato che ha quasi dell’incredibile, anzi, dell’impossibile!
Roberto Giacomelli
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