Noi, la recensione

È una carriera strana quella che Jordan Peele si sta costruendo: da principe della commedia televisiva americana a re del nuovo horror sociale. Cavalcando per anni show brillanti di successo del piccolo schermo, come Love Bites, Kay & Peele, Modern Family, Robot Chicken, Rick & Morty, a volte come semplice guest star, Jordan Peele esordisce come regista per il cinema nel 2017 con un horror dai forti connotati sociologici, Scappa – Get Out, grazie al quale riesce anche a vincere un Oscar alla sceneggiatura originale.

E da quel momento nasce un nuovo punto di riferimento per il cinema horror contemporaneo, un piccolo punto di partenza per dar vita a un florido percorso di ricostruzione (e decostruzione) del cinema di paura, tenendo presenti le contraddizioni dell’attuale società americana.

Dietro Scappa – Get Out c’era il solito lungimirante supporto produttivo di Jason Blum, che rinnova la collaborazione con Peele anche per la sua seconda regia, Noi. Ancora un horror, ancora una forte impronta sociologica e, per la seconda volta, la dimostrazione che svecchiare vecchi concept del fanta-horror classico può funzionare ancora alla grande!

Perché se Scappa – Get Out non era altro che la variante razziale de La fabbrica delle mogli, inquietante romanzo di Ira Levin portato al cinema magnificamente nel 1975 da Bryan Forbes, Noi è una versione allucinata de L’invasione degli Ultracorpi di Jack Finney, con le dovute citazioni dalle prime due riduzioni cinematografiche: quella di Don Siegel del 1956 e quella (più orrorifica) di Philip Kaufman del 1978.

Nel film di Peele Adelaide Wilson (Lupita Nyong’o), sposata e madre di famiglia, torna alla casa d’infanzia per passare le vacanze, luogo legato a un trauma infantile che ormai sembra aver superato. La prima notte nella vecchia casa fa sprofondare nel terrore la donna e la sua famiglia: quattro persone vestite di rosso e identiche a loro stazionano nel vialetto della loro abitazione, immobili e tenendosi per mano. È solo l’inizio di un terrificante incubo a occhi aperti che coinvolgerà tutta la città.

Con una invidiabile sagacia di scrittura, Jordan Peele riesce a fare completamente suo lo spunto di partenza degli Ultracorpi per elaborare un nuovo concept che molto probabilmente entrerà nella storia del cinema horror post-moderno. Il doppelgänger si svincola da qualsiasi intervento extraterrestre e vive come riflesso del suo doppio, condividendo con esso spazi speculari senza doversi necessariamente sostituire. Almeno non inizialmente.

Il doppio è tale per un motivo “x” che durante la visione del film scopriremo, ma non è neanche fondamentalmente importante per la caratura orrorifica del film, anzi, se vogliamo, le spiegazioni tendono leggermente a spegnere l’enfasi sulla forza intrinseca al progetto. Il doppio funziona perché è la versione grottesca dei protagonisti, una declinazione mostruosa, che fatica ad esprimersi con chiarezza e completamente folle della borghesia americana. Il doppio è il reietto, è la creatura da sempre calpestata che ha vissuto nell’ombra mangiando i nostri scarti, facendosi forte dell’inferiorità in cui ha da sempre vissuto. Il doppio è il gemello deforme incattivito perché rinchiuso in soffitta a mangiare teste di pesce, è il lato oscuro dell’America che cerca riscatto.

Imbrigliati in tutine rosse, come rosso è il metaforico colore politico di cui si tingevano gli Ultracorpi, e impegnati a tenersi per mano in una importante catena umana che dimostra l’unione (e quindi la forza) di questi esseri, i doppelgänger di Noi si caricano di una valenza iconografica che sicuramente si presta ad essere sfruttata dal cinema di paura per costruire una precisa mitologia orrorifica che facilmente potrà resistere al tempo. Il film di Peele, oltre a caricarsi di significati sociali che ne rappresentano la struttura ossea primaria e forniscono quel quid qualitativo, è legato a una lettura religiosa che ne accresce il fascino (provate a documentarvi sul Vangelo di Geremia, capitolo 11, versetto 11 e vi si aprirà un mondo!) ed è anche un film horror efficace in quanto tale.

C’è una tensione costante che all’inizio è fornita da piccoli elementi, lunghe scene, attese e una colonna sonora molto ben utilizzata. Poi si scatena l’orrore che assume inizialmente la forma dell’home invasion movie per tramutarsi poi in una delirante danza di sopravvivenza attraverso diversi scenari. Se dobbiamo rimproverare una cosa a Peele è l’aver caricato il suo film in maniera eccessiva, dilatando la tensione e prolungando esponenzialmente i momenti orrorifici. Il risultato è aver l’effetto esattamente opposto perché se una scena di tensione arriva a durare anche mezz’ora, la tensione inesorabilmente va a finire prima del previsto. Infatti, i ben 122 minuti di durata sono troppi per un film di questo tipo, tra l’altro utilizzati per ribadire il già detto e il già mostrato.

Al di là di questi problemi con la gestione dei tempi, Peele dimostra di avere davvero qualcosa da dire, di rappresentare un nuovo faro nel cinema horror di qualità, quello capace di fornire allo spettatore più e più chiavi di lettura e rappresentare nel tempo un piccolo specchio (distorto) della società attuale.

Non è poco.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Un’ottima rielaborazione personale del classico L’invasione degli Ultracorpi.
  • Diverse chiavi di lettura forniscono allo spettatore la possibilità di vedere e rivedere il film carpendo sempre nuovi significati.
  • I doppi mostrati in questo film sono sufficientemente iconografici da rimanere nell’immaginario del genere.
  • Il film dura troppo perché le scene di tensione durano troppo e alcuni concetti sono ribaditi più volte.
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Valutazione: 7.0/10 (su un totale di 1 voto)
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