Paura del classismo: l’universo distopico al cinema

Se pensiamo alla letteratura novecentesca del genere, avverrà nell’immediato il collegamento tra 1984 di Orwell, da cui l’omonima pellicola diretta da Michael Radford, per onor del vero, proprio nel 1984, e un futuro distopico. La cieca fedeltà al romanzo scelta da Radford si dice abbia addirittura spinto il regista a girare parti del film nelle stesse giornate del libro, questo per far intendere quanto abbia cercato di rimanere vicino al libro a tutti noto.

La stesura dello scritto risale ai primi anni ’50, rivolgendosi ad un pubblico che aveva vissuto le brutture dei vari totalitarismi che avevano persuaso e invaso il continente europeo nei primi decenni del ‘900. Infatti, ambientato in Oceania, si parla di una dittatura in cui gli individui che sottendono ad essa non hanno possibilità alcuna di liberarsi e di autodeterminarsi.

metropolisPrima ancora di Orwell, nelle primordiali sale cinematografiche, negli anni ’20 e precisamente nel 1926 ecco nascere un piccolo gioiello, recentemente da alcuni critici denigrato senza, a mio avviso, apparente motivo, del genere distopico: si parla del famigerato Metropolis di Friz Lang. Lusso e sfarzo nei grattaceli dove i ricchi vivono celando la loro inconsapevolezza di essere fortunati rispetto a una ingente classe operaia che sostiene l’intera città con sudore e frustrazione. Questo a discapito del grigio, colore ispirato dal totalitarismo che l’inglese autore de La fattoria degli animali conosceva bene, facendomi così riportare alla mente il racconto breve W dell’argentino Cortazar. L’ambientazione è varia: dai giardini di Freder al sottosuolo del lavoro operaio. Ancora un tentativo di epicità strappa dal dramma la pellicola di Lang: il lieto fine, l’eroe è presente ed è un esempio umano a 360 gradi, dotato di una morale da apologo religioso (non casualmente l’eroe in questione, ovvero Freder, era stato addirittura profetizzato da una donna con lo stesso nome della madre di Cristo Salvatore, Maria), ricca di spirito di sacrificio e desiderio di comprensione.

Katniss e Peeta faccia a faccia

Katniss e Peeta faccia a faccia

Dove ritroviamo gli eroi gloriosi? Pensiamo ad Hunger Games di Gary Ross: tratto dalla trilogia della scrittrice Suzanne Collins, nel 2012 si maturò l’idea che bisognasse riprendere in mano le redini del futuro distopico dotato di una classe dominante crudele e disinteressata che vive nella mirabolante Capitol City a discapito di dodici distretti di lavoratori. La novità risiede nella modernità: lo show televisivo. I dodici distretti vengono tenuti a bada dagli Hunger games: ogni anno in ogni distretto vengono estratti a sorte una persona per sesso, confinata in un’isola ripresa da apposite telecamere per gli spettatori. Devono uccidersi a vicenda, vince l’ultimo sopravvissuto. Questa parte ricorda ai più attenti Battle Royale di Kinji Fukasaku, ispirato anche questo dal romanzo giapponese, vecchio di un anno rispetto al riadattamento cinematografico del 2000, di Koushun Takami. L’eroina di Hunger Games sfida il potere, accende la scintilla della rivoluzione dal basso, a costo di sacrificare la sua vita. Infatti anche lei è dotata di un particolare spirito di sacrificio, in quanto avendo vinto i giochi, avrebbe condotto il resto della sua vita nella gioia spasmodica di Capitol City. Ma rinuncia a ciò per salvare la sua gente dalla schiavitù classista, vincendo.

Un’altra tipologia di eroe si evince dalla più talentuosa e forse meglio nota opera di Ridley Scott, Blade Runner, del 1982.

«Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.»

bladerunnerL’eroe poliziotto che deve fare la cosa giusta affiancato dall’anti-eroe robot che semplicemente vuole vivere. Chi è l’eroe? Il poliziotto Deckard che deve fermare la rivolta dei replicanti, o il robot Roy Batty, che non si accontenta di lavorare per i pochi anni che la sua programmazione gli regala di vita sotto il comando degli umani, rappresentando così la classe dei lavoratori in una metafora fantascientifica. L’ambiguità del giusto e dell’errato si evince nel film che molti hanno definito come il miglior film di fantascienza di sempre, accanto ai sei episodi della saga Star Wars firmata da George Lucas.

Un cult uscito nel 1985 dall’irriducibile humor inglese viene intitolato Brazil dal suo creatore Terry Gilliam. Venendo dalla famiglia dei Monty Python, Gilliam scova la sua epifania nella satira di quest’opera, che non manca di attori d’eccezione e di drammaticità. L’eroe non è certo un trionfante Harrison Ford a caccia di replicanti, né una bellissima Jennifer Lawrence armata di arco e frecce. E, in effetti, non trionferà. Sam è un comune lavoratore che, per amore, cercherà di andare contro la dittatura burocratica che claustrofobicamente imprigiona tutti i personaggi della trama.

brazilIn tutti questi esempi cinematografici, tratti spesso da omonimi romanzi, si trovano punti in comune interessanti che li rendono per questo classificabili sotto lo stesso genere. Ciò che esce da questa analisi è la volontà di mostrare ribellioni dal basso, che a volte riescono, dovute alla consapevolezza dei poveri e alla cecità dei ricchi. E fra gli oppressi, una grande figura o più possono fare la differenza. Ma nella realtà, questo accade? Non sono forse i potenti coloro che sono consapevoli del loro potere e i poveri a marcire nell’ignoranza del servilismo? Non sono forse le classi dominanti che hanno sempre storicamente prevalso sulle classi inferiori? Si possono, quindi, dividere questi mondi tra quelli che iniziano con l’essere distopici e diventano utopici, proprio perché l’eroe salvatore riesce in una situazione impossibile a ribaltare il sistema, da quelli effettivamente distopici. Distopico è Brazil, è Blade Runner. Utopico è Hunger Games, è Metropolis.

La paura di sprofondare in un annientamento dell’individualismo si fa sempre più forte a partire dal 1900 con le varie dittature, arrivando ai giorni nostri con la globalizzazione. La paura del classismo esce dal libro ed entra nel cinema diventando senza tempo

Laura Tedeschi

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