They, la recensione
They è il nome con cui ha scelto di farsi chiamare il quattordicenne J, ancora in cerca della propria identità. They rifiuta il passaggio dall’infanzia all’età adulta auto-condannandosi ad un’eterna adolescenza favorita dall’uso di ormoni che ritardano la pubertà. Mentre i suoi genitori sono assenti, They trascorre le sue giornate Lauren e il loro nuovo amico Araz, un iraniano che tuttavia fatica a comunicare con i due a causa della sua scarsa conoscenza della lingua inglese. They osserva passivamente il mondo attorno a sé nella speranza di “salvarsi” dalle insistenti domande che l’imminente arrivo dell’età adulta gli porrebbe.
La difficoltà a stabilire la propria identità porta quindi ad una depersonalizzazione totale in cui perfino il nome viene rifiutato a favore del pronome. E uno dei principali problemi di They risiede proprio in questo, nella fatica a definire i propri personaggi, soprattutto da parte dello spettatore, cadendo quindi in un eccesso di autoreferenzialità.
Film mosso da intenti piacevoli e promettenti, They non giunge a dei risultati esaltanti e sembra relegare ai margini tutto quello che ha da dire per cimentarsi in un’operazione di regia che cammina con i piedi di piombo.
Diretto da Anahita Ghazvinizadeh e prodotto da Jane Campion, They si crogiola di essere un ritratto lucido e impietoso, ma finisce per risultare soltanto freddo e privo di spessore come i suoi stessi personaggi, pur non essendo affatto privo di sguardo.
Il soggetto offriva alla regista l’occasione di portare sul grande schermo tematiche trite e ritrite ma con almeno qualche nota di originalità. Tuttavia, questa opportunità non viene colta e il film cade in un quadro sostanzialmente privo di forza.
Claudio Rugiero
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