TFF38. Funny Face, la recensione
Una maschera fluttua nell’aria, cade forse dal cielo e ondeggiando sceglie il suo nuovo corpo. La maschera riproduce un volto sorridente e grottesco, per certi versi richiama una caricatura di Ronald Reagan, che curiosamente era stata al centro della horror comedy The Tripper, ma in realtà è un viso standard, vicino, se vogliamo, alle maschere inquietanti di The Purge. È quel volto deformato ma sorridente a scegliere chi dovrà indossarlo, chi dovrà essere posseduto. Perché, non lontano da quello che accadeva in The Mask con Jim Carrey, la maschera sgancia i freni inibitori del suo ospite, dà vita al suo vero io, libera le pulsioni più istintive, violente, amorali. Questo è il succo di Funny Face, l’opera quinta di Tim Sutton, regista e sceneggiatore che si era già fatto notare nel 2016 con il controverso Dark Night.
Però Funny Face è, in primis, un thriller sociale che gioca sul filo dell’allegoria di stampo soprannaturale per raccontare altro: il disagio di una generazione a cui manca un obiettivo nella vita, la difficoltà per certe classi sociali di “sopravvivere” in contesti che le rendono invisibili e di confrontarsi con l’ingordigia generata dal “dio” denaro. Nello specifico, Tim Sutton racconta la speculazione edilizia che divora certi ambienti urbani come la periferia di New York.
In Funny Face facciamo la conoscenza di un imprenditore senza nome – interpretato dall’ex Sherlock Holmes di Elementary Jonny Lee Miller – che sta portando avanti un progetto di riqualificazione urbana che consiste nella demolizione di un intero isolato per trasformalo in un gigantesco parcheggio. Centinaia di persone verranno sfrattate e perderanno la casa, persone di cui non interessa a nessuno, invisibili, persone tra le quali c’è Saul e la sua famiglia. Saul ha circa 30 anni, non ha un lavoro, è un bravo ragazzo ma ha delle evidenti turbe mentali. Saul sarà scelto dalla Maschera, da quella funny face che lo trasformerà in un aspirante giustiziere.
Nel film di Sutton è fondamentale anche la presenza di Zama, una ragazza di origini mediorientali che vive con gli zii, ferventi musulmani che non approvano lo stile di vita della nipote, normalissimo ma a loro modo di vedere irrispettoso della loro cultura. La strada di Zama, anch’essa mascherata ma con un niqāb, si incrocia a quella di Saul e i due iniziano un’avventura comune che li porta a girovagare apparentemente senza meta per le strade della periferia newyorkese, di giorno e di notte.
Quella che Sutton mette in scena è la nascita di una storia d’amore tra emarginati, fatta di passeggiate al tramonto, pranzi in ristoranti etnici e shopping. Ma non dimentichiamo il “costruttore”, circondato da iene, impegnato in orge nel suo lussuoso loft, pronto al confronto con un padre avvoltoio che rappresenta la precedente generazione di speculatori edilizi. Le due vicende procedono parallele e sono destinate a incontrarsi ma il modo in cui accade è superficiale e divampa in un anticlimax clamoroso. Perché, nel fare ipnotico e girovago di Funny Face, l’obiettivo ad un certo punto si perde e tanto lo spettatore quanto l’autore quasi si dimenticano delle premesse: cos’è quella maschera? Dove vanno Saul e Zama? Non importa, Sutton ha deviato l’attenzione su altro, sull’amore di una coppia di novelli Bonnie & Clyde.
Dunque, Funny Face è un film clamoroso come in molti stanno scrivendo, scomodando molto ingenuamente anche Joker di Todd Phillips? Assolutamente no.
Funny Face è parte di un percorso, molto autoriale, intrapreso da Tim Sutton nell’esplorazione della dimensione urbana e delle turbe mentali. Il suo è un percorso molto coerente e Funny Face è una tappa fondamentale di questa esplorazione, sicuramente più matura in confronto al derivativo Dark Night ma ancora ben lontana da una visione d’autore compiuta.
In Funny Face c’è una destrezza nel maneggiare la macchina da presa che convince molto, così come inquadra in maniera sfuggente i volti e si concentra sui paesaggi e che ha il suo culmine nella bellissima scena dell’orgia, con inquadratura fluttuante ed elegante. Funny Face ha anche una bella fotografia satura che predilige i colori caldi e i contrasti sfumati, così come ha un commento musicale elettronico che contribuisce a generare quel fare ipnotico. Possiede anche gli attori giusti, volti grezzi ma affascinanti, come Cosmo Jarvis e l’esordiente Dela Meskienyar.
Solo che a Funny Face manca la scrittura adeguata: Tim Sutton è un bravo regista ma uno sceneggiatore acerbo e le situazioni che compongono il film non hanno un’adeguata forza narrativa, non c’è una costruzione d’insieme sufficientemente forte da catturare l’attenzione dello spettatore. Anche i personaggi non emergono come avrebbero dovuto e la loro delineazione sembra spesso merito più della caratterizzazione data dagli attori che dallo script.
Insomma, molto di quello che avete letto nella prima parte di questa recensione è più frutto di un’interpretazione che di un’effettiva chiarezza espositiva da parte del film e la visione di Funny Face per lo spettatore “medio” potrebbe essere perfino frustrante proprio perché manca di un preciso “perché” e “come” che possa condurlo fuori dalla lettura allegorica. Quando il film termina, nonostante il tentativo di dare un senso di ciclicità agli eventi e di sottolineare l’ineluttabilità del destino, si ha come la sensazione di incompletezza, di un lungo prologo a una storia che non vedremo mai.
Funny Face è stato presentato in concorso al Festival di Berlino 2020 e nella sezione Le stanze di Rol al 38° Torino Film Festival.
Roberto Giacomelli
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