The Legend of Tarzan, la recensione
Chi di noi non conosce John Clayton III di Greystoke, comunemente identificato come Tarzan? Il celebre uomo-scimmia partorito dalla fantasia di Edgar Rice Burroughs è stato raccontato davvero in tutte le salse e a tutte le generazioni, riproposto periodicamente con un rinnovato interesse delle major verso quella che possiamo ormai considerare una storia immortale. Burroughs inventò il suo uomo-scimmia nel 1912 con una storia che venne pubblicata a puntate sulla rivista americana The All-Story; il grande successo dell’appuntamento con Tarzan fece si che quella storia a puntate venisse raccolta, nel 1914, in un romanzo intitolato Tarzan delle scimmie. Il successo esponenziale ha portato Burroughs a scrivere ben 24 libri (tra romanzi e raccolte di racconti) dedicati a Lord di Greystoke e l’industria culturale ha attinto moltissimo da questo personaggio grazie a fumetti (anche a marchio DC Comics e Marvel), film e serie televisive.
Tarzan è dunque diventato col tempo un vero e proprio archetipo, conosciuto da chicchessia, in tempi più recenti grazie al riuscito film d’animazione Disney diretto nel 1999 da Chris Buck e Kevin Lima. Ma è arrivato il momento di parlare anche alle nuovissime generazioni e quindi la Warner Bros. propone Tarzan in una nuova salsa con The Legend of Tarzan, diretto dal regista rowlinghiano per eccellenza David Yates.
Ma attenzione! Come si diceva su, Tarzan ormai è un archetipo, vive di vita riflessa su qualsiasi superficie e raccontare ancora una volta le origini o la storia alla base del primo romanzo di Burroughs – di cui il film Disney ha già attinto con devota fedeltà – non avrebbe avuto molto senso. Così lo script di Craig Brewer e Adam Cozad si concentra su altro, proponendo un ideale sequel a Tarzan delle scimmie, una continuazione che raccoglie spunti dall’immaginario burroughsiano e ne ripropone i personaggi, con dovuti aggiornamenti, senza però ribadire eccessivamente l’ovvio.
Incontriamo un Tarzan civilizzato, ormai tenutario della magione Greystoke a Londra e sposato con Jane Porter. Siamo nel 1889 e i rapporti che legano la Gran Bretagna al Belgio fanno si che il Primo Ministro britannico accetti di condurre una spedizione in Congo per conto di Re Leopoldo di Belgio. Per facilitare la missione in un luogo così ospitale, viene specificamente chiesto a John Clayton di Greystoke di guidare la missione, vista la conoscenza che ha di quei luoghi e l’influenza che possiede sulle genti che vi abitano. Inizialmente riluttante, John accetta e porta con se anche Jane, ma allo stesso tempo in Congo c’è anche il capitano Leon Rom, precedentemente inviato da Re Leopoldo per procurarsi delle risorse minerarie utili a ripristinare la scarsità di risorse che il Belgio sta attraversando. Durante la sua missione, il capitano Rom incontra il capo di una tribù che riserva un acceso rancore nei confronti di Tarzan e così propone al belga di assicuragli il controllo su una vena mineraria in cambio della testa dell’uomo-scimmia.
Siamo, dunque, dinnanzi a un ideale “dopo”, sapientemente contestualizzato in un epoca storica che il cinema raramente ci ha raccontato, in particolare in relazione a determinati luoghi e specifiche dinamiche di potere. L’origine dell’eroe ci è mostrata a sprazzi, concentrata in episodi salienti che si ancorano all’immaginario collettivo legato al mito di Tarzan, attraverso dei flashback non sempre ben inseriti che – francamente e visti gli intenti di The Legend of Tarzan – potevano anche essere evitati.
Malgrado questa apprezzabilissima voglia di virare su altro in confronto al già noto, il film di David Yates soffre di un tedioso déjà-vu che interessa non tanto il cosa ma il come. Con The Legend of Tarzan ci troviamo dinnanzi a un blockbuster che incarna tutti – ma proprio tutti! – i crismi del genere, sia nel bene che nel male. Un roboante e ipertrofico film d’azione avventurosa che fa un uso massiccio degli effetti visivi, costruisce l’azione proprio come ce la aspettiamo, porta in scena archetipi che sono anche stereotipi (l’eroe, la damigella in pericolo, il villain, la spalla comica…) e lascia dunque quel senso di vuoto nello spettatore per aver visto l’ennesimo film che ricalca una formula rodata da decenni, senza aver realmente aggiunto nulla.
Capiamoci, non è un male essere “classici”, soprattutto se ci si confronta con un classico, ma a The Legend of Tarzan manca quel quid che possa elevarlo sopra la media del blockbuster estivo, prestandosi troppo facilmente ad essere assimilato (e dunque dimenticato) con velocità.
Alexander Skarsgård non è una scelta scontata per il ruolo di Tarzan, fisicamente molto pertinente ma privo di quel carisma attoriale che si chiede a un protagonista, non è un caso, infatti, se l’attenzione dello spettatore finisce per ricadere sulla sua spalla Samuel L. Jackson e, soprattutto, su Margot Robbie, che è una Jane più grintosa e reattiva del prototipo, proprio come i tempi chiedono. Pollice verso per Christoph Waltz, ormai intrappolato nel personaggio dell’europeo viscido, calcolatore e sadico, che lo sta velocemente portando a un pericoloso etichettamento da caratterista, cosa che non si augurerebbe mai a un (meritato) premio Oscar.
Citazioni pop sparse qua e là e enfatizzate con senso della consapevolezza, dalla corsa sulle liane al fatidico urlo, passando doverosamente sulla massima “Io Tarzan, tu Jane”.
The Legend of Tarzan vince ma non convince perché troppo schiavo di uno standard produttivo e narrativo che tende alla ripetizione di schemi, dinamiche e personaggi, con il pericolo di lasciare presto il passo alla noia.
Roberto Giacomelli
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