Dio è donna e si chiama Petrunya, la recensione

Raramente la filmografia macedone riesce a guadagnare la notorietà internazionale e gli onori di festival italiani, ancora più raramente trova accoglienza dai distributori nostrani per un’uscita sul grande schermo. Ma questo è stato il caso di Dio è donna e si chiama Petrunya, nuovo lungometraggio della macedone Teona Strugar Mitevska che dopo essere stato applaudito al 37° Torino Film Festival arriva nelle sale italiani dal 12 dicembre distribuito da Teodora. Ma il percorso di Dio è donna e si chiama Petrunya era già iniziato al Festival di Berlino a inizio 2019 ed è proseguito con grande successo fino alla finale del Premio Lux, riconoscimento che viene annualmente attribuito dal Parlamento europeo a film di nazionalità europea che si distinguono per la capacità di trattare temi rilevanti nel dibattito socio-politico.

Dio è donna e si chiama Petrunya racconta la storia di una ragazza macedone sulla trentina, disoccupata e con un rapporto conflittuale con la madre, che in seguito all’ennesimo colloquio di lavoro andato male si trova per sbaglio nel bel mezzo del rituale della Sacra Croce, a cui possono partecipare solamente gli uomini. Petrunya, arrabbiata con il mondo, infrange le regole e si impossessa della sacra reliquia, mandando su tutte le furie i partecipanti al rito. Fuggita con il tesoro, che secondo la tradizione dovrebbe garantire un anno di prosperità a chi ne viene in possesso, la ragazza viene accusata di furto e prelevata dalla polizia, scatenando l’interesse dei mass media.

La regista Teona Mitevska si è ispirata a un fatto realmente accaduto in un paesino macedone nel 2014, quando fu una donna a recuperare la croce scatenando uno scandalo che ha fatto il giro del Paese. Il rituale è tipico delle comunità cristiane ortodosse, si svolge ogni 19 gennaio e consiste nel lancio di una croce di legno benedetta che dovrebbe assicurare fortuna e prosperità nella famiglia della persona che riesce ad afferrarla. Però è un rituale vietato alle donne, mostrando quella chiusura verso il sesso femminile di buona parte delle religioni mondiali, anche quelle meno “estreme”. Un paradosso che è stato colto con intelligenza e piglio satirico dalla regista, fornendole l’input per una bella riflessione sociale sul ruolo della donna nella società contemporanea.

Ma non aspettatevi l’ennesimo polpettone “frantuma-maroni” a cui troppo spesso il cinema che tratta queste tematiche ci ha abituato, Dio è donna e si chiama Petrunya sceglie la strada della commedia nera mostrandosi giustamente accessibile a un pubblico molto vasto che possa apprezzare e riflettere su quanto nel film viene raccontato. La storia di Petrunya, che è interpretata da una bravissima Zorica Nusheva, si apre come una commedia grottesca che ci presenta il personaggio come una sorta di Bridget Jones realistica, incazzata con il mondo, sgradevole nel comportamento e nell’aspetto trascurato, litigiosa, capricciosa e apparentemente anche un po’ viziata ma, in fondo, molto fragile.

Petrunya ha alzato una vera e propria barriera protettiva nei confronti del prossimo a causa dei troppi schiaffi ricevuti da una vita che palesemente le sta stretta; lei che si è laureata in storia in un Paese che invece la costringe, come massima ambizione, a fare da segretaria per un viscido imprenditore locale che la scarta perché troppo poco attraente per far sesso nel suo ufficio. Petrunya diventa l’immagine della frustrazione, l’imbarbarimento della società inizialmente predisposta alla collaborazione, tanto che il suo gesto verso il rituale della Sacra Croce diventa un atto di ribellione verso le convenzioni di una società che non sente sua. O forse è anche una disperata speranza di ricevere la “grazia” da Dio e avere un po’ di fortuna, dal momento che il suo atteggiamento verso la religione non appare mai veramente blasfemo.

Da questo punto in poi, grazie all’intervento di una giornalista della tv che prende particolarmente a cuore la questione di Petrunya, abbiamo anche un punto di vista esterno alla vicenda che è quello di una comunità locale che minimizza l’accaduto e sembra propensa ad andare oltre a queste vetuste tradizioni. Però c’è anche una parte della stessa violenta, vendicativa, conservatrice e chiaramente fascista che si organizza in un raid punitivo nei confronti della ragazza e assedia la stazione di polizia in una notte di terrore che sembra tanto un film di John Carpenter.

Il tono di Dio è donna e si chiama Petrunya si fa più gravoso, assume toni da thriller, e intraprende una strada in cui ad emergere è l’ambiguità dei personaggi. A cominciare dalla stessa protagonista, vittima della società, vittima degli eventi, vittima di un gruppo di teppisti che vorrebbe punirla, forse ucciderla. Una pecora in una tana di lupi. O forse no… forse il lupo è lei, un malvagio lupo con indosso il costume da pecora, pronto a sbranare chiunque le si avvicini per il puro gusto di farlo.

A Teona Mitevska non interessa dare troppe risposte, però il quadro è chiaro a fine visione e ci troviamo tra le mani uno dei film femministi meno femministi tra quelli che il panorama cinematografico internazionale ci ha proposto in questi anni di #metoo. Un film realmente valido che non si nasconde dietro quote rosa o tematiche alla moda, ma fa della sua arguzia di scrittura e del talento generale il suo biglietto da visita.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Una bella sceneggiatura a supporto di un film che tocca tematiche sociali importante con una necessaria leggerezza.
  • Zorica Nusheva è molto brava.
  • Se non si conosce la tradizione ortodosso (e la maggioranza degli spettatori non la conoscono) si fatica un po’ ad entrare nelle dinamiche del rituale e dell’importanza che questo ha per la comunità.
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