Hollywood: l’epoca d’oro del Cinema (ri)vista da Ryan Murphy

Il confine tra la realtà e l’immaginazione è spesso labile e il cinema, la letteratura, la televisione ce lo ricordano di continuo in una eterna sfida in cui siamo chiamati ad ascoltare storie inventate, ma del tutto verosimili. Ma cosa accadrebbe se partissimo da una storia vera per confluire poi in uno sviluppo (e un epilogo) del tutto fantasioso? Accade che sfociamo nel territorio del “what if”, ormai caro a Quentin Tarantino, che prende il là da eventi reali per modificarli progressivamente in corso fino a raggiungere obiettivi del tutto fantasiosi. Insomma, cosa sarebbe accaduto se Adolf Hitler fosse stato ucciso in Francia nel 1944? E se quella notte di agosto del 1969 Sharon Tate e i suoi amici non fossero stati uccisi dalla Manson Family? E, soprattutto, se nella Hollywood di fine anni ’40 qualcuno si fosse imposto a favore di neri, omosessuali e donne, oggi il cinema e la società tutta sarebbero differenti?

Proprio quest’ultimo “what if” interessa la miniserie Hollywood, 7 densissimi episodi da 50 minuti l’uno che potete trovare su Netflix e che portano la firma in regia e sceneggiatura, insieme a Ian Brennan, del “Re” del piccolo schermo Ryan Murphy.

Da anni ormai impegnato nel sensibilizzare il pubblico su tematiche legate alla diversity, Ryan Murphy è riuscito a spaziare con estrema brillantezza in diversi generi, dal drama di Nip/Tuk, Pose e The Polititian, al grande successo teen-musical di Glee, passando per le suggestioni horror di American Horror Story e Scream Queens. Tanti tasselli di un complesso mosaico utile a raccontare la vita e le idiosincrasie della società statunitense, fortemente ancorata alla cultura LGBT ma ancora profondamente discriminatoria.

Hollywood

Hollywood si aggiunge a questo “universo” raccontando la diversity nel mondo del cinema in un’epoca fortemente razzista, l’immediato dopoguerra, quando Hollywood era controllata da leggi e codici (come il famigerato Codice Hays, che pesò sul settaggio morale di autocensura cinematografica fino agli anni ’60!) che prendevano di mira la diversità, fomentando la discriminazione razziale e di gender.

La miniserie parte dalla storia di Jack Castello, giovane veterano di guerra sposato e in attesa di due gemelli, che si trasferisce con la moglie a Los Angeles con la speranza di poter sfondare nel mondo del cinema e invece la dura realtà lo vede impiegato come gigolò nella pompa di benzina Ernie West, ex attore passato al guadagno facile gestendo un traffico di prostituzione per le star di Hollywood. Ma la vita di Jack presto si incrocia con quella di Archie Coleman, aspirante sceneggiatore afroamericano e omosessuale anch’egli invischiato nel mondo della prostituzione. Finché entrano in gioco gli Ace Studios, nota casa di produzione che vuole sviluppare dietro la regia del giovane Raymond Ainsley proprio una sceneggiatura di Archie e per cui Jack riesce ad ottenere un provino. Questo è solo l’inizio della fantastica avventura di uno sgangherato team di produzione che sfiderà la legge e la morale comune per dar vita a un film che nessuno avrebbe mai potuto immaginare prima!

Hollywood

Murphy e Brennan partono da un contesto reale e realistico popolandolo di persone realmente esistite impegnate a rapportarsi con personaggi immaginari: ci troveremo a seguire le gesta di Rock Hudson (nella serie Jake Picking), attore di grandi classici come La magnifica ossessione e Il gigante, dell’agente delle star e produttore Henry Wilson (Jim Parsons), l’attrice sino-americana Anna May Wong (Michelle Krusiec). E incrociamo anche l’attrice Talulah Bankhead (interpretata da Paget Brewster), lo sceneggiatore Noel Coward (Billy Boyd), il regista George Cukor (Daniel London), l’attrice Vivien Leigh (Katie McGuinness) e Hattie McDaniel (Queen Latifah) prima attrice di colore a ricevere un Premio Oscar. Ma anche personaggi fittizi chiaramente ispirati a reali personalità dell’epoca, come Ernie West (Dylan McDermott) che è palesemente plasmato sull’eccentrico Scotty Bowers, oppure Camille Washington (Laura Herrier) ispirata all’attrice Lena Horne. Insomma, un variegato parterre di personalità di Hollywood che si confonde e interagisce con personaggi scritti ad hoc per dar vita a un grande e affascinante quadro di un’epoca.

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Un’epoca in cui essere se stessi spesso non era possibile, in cui l’omosessualità doveva rimanere celata da matrimoni di copertura per alimentare l’idea del divo eterosessuale, desiderato dalle donne che riempivano le prime file dei teatri; un’epoca in cui era la razza a dettare l’ottenimento di un impiego o la possibilità di entrare in un luogo pubblico, per cui l’attrice asiatica o afroamericana non potevano ottenere ruoli che non alimentassero lo stereotipo o veniva proibito agli attori di colore nominati agli Oscar di partecipare alla cerimonia, come testimonia Hattie McDaniel, premiata come attrice non protagonista in Via col vento.

Paletti, regole che non permettevano alla società di evolversi. Una società schiava dell’apparenza, di una moralità tossica, retrograda, putrescente. E in questo contesto che oggi ci sembra assurdo, ma che paradossalmente ancora prolifera in alcuni settori, la libertà arrivava dall’attività (illegale) di una pompa di benzina che fungeva da copertura per soddisfare le “voglie proibite” di una mole incredibile di personalità del mondo dello spettacolo. Perché nella Hollywood del dopoguerra c’era un tasso di omosessualità davvero molto alto, nomi di cui oggi conosciamo il “vizietto”, ma che all’epoca erano segretissimi, impensabili. Come Rock Hudson, sex symbol eterosessuale ma segretamente gay, che nella miniserie Hollywood guadagna forse la più bella storyline raccontata.

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E l’innegabile magnetismo di Hollywood risiede soprattutto nel vedere stravolta la Storia in maniera credibile (agli occhi moderni), rimescolando le carte della moralità, raccontando la vita di uomini e donne ai margini che trovano un riscatto. Una parabola possibilista estremamente liberatoria che trova nella scrittura brillante e serratissima di Murphy e Brennan un coronamento perfetto di equilibri, sempre e comunque scevro da quel fastidioso alone di perbenismo inclusivo che sta dilagando oggigiorno in troppe produzioni cine-televisive. A tutto ciò unite anche una cura formale magnifica che si riflette nella ricostruzione perfetta di un’epoca attraverso luci, costumi e scenografie che ci trasportano davvero nella Los Angeles del 1948.

Anche il cast fa il suo dovere risultando vario e perfettamente aderente ai personaggi chiamati a interpretare. Tra i tanti sicuramente ci rimangono nel cuore il Jack Castello di David Corenswet, l’Ernie West di Dylan McDermott, la Claire Wood di Samara Weaving, l’Archie Coleman di Jeremy Pope e il monolitico (ma adorabile) Rock Hudson di Jake Picking.

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Tutto funziona alla perfezione in Hollywood, ogni scelta narrativa e stilistica, perfino quelle che qualcuno potrebbe facilmente attaccare, hanno una perfetta funzione nell’idea d’insieme e contribuiscono a dar vita a una storia coerente, liberatoria e originale.

Hollywood è l’ennesima dimostrazione che ormai si è trovato un punto d’incontro perfetto tra cinema e tv, non solo tematicamente ma anche qualitativamente, perché quella ideata da Ryan Murphy e Ian Brennan non è solo una bellissima miniserie per Netflix ma paradossalmente anche un esempio di grande cinema.

Roberto Giacomelli

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