Il ponte delle spie, la recensione

Volto della nuova Hollywood da anni (o per anni) e artefice di alcuni dei più grandi successi della storia del cinema, nonché di veri capolavori dell’immaginario filmico, Steven Spielberg negli ultimi tempi si è un po’ adagiato sugli allori, con tutta una serie di film che oscillano dal dimenticabile (War Horse) al compitino ben svolto acchiappa-Oscar (Lincoln). Forse gli ci voleva una storia particolarmente avvincente e una sceneggiatura ben scritta, ma con Il ponte delle spie Spielberg è tornato ai fasti di un tempo.

1957, nel bel mezzo della Guerra Fredda l’artista Rudolf Abel viene arrestato con l’accusa di essere una spia sovietica. Per il processo viene affidata la difesa formale di Abel all’avvocato James B. Donovan, specializzato in assicurazioni e con un fervente senso della giustizia. Donovan prende particolarmente a cuore il caso, affascinato dalla fermezza e dalla tranquillità del suo assistito, ma allo stesso tempo si guadagna il disprezzo dell’opinione pubblica, visto come il difensore del nemico americano per eccellenza. Nel frattempo, un aereo spia americano viene abbattuto in territorio sovietico e il pilota Francis Gary Powers viene fatto prigioniero. Per gli Stati Uniti, che nel frattempo hanno condannato a colpevole Abel, il loro prigioniero diventa la speranza di riavere indietro il tenente dell’aeronautica e per effettuare lo scambio, che si terrà a Berlino Est, è stato scelto proprio l’avvocato Donovan.

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Che Spielberg sia ormai un affezionato della ricostruzione storica non è una novità, ma per la prima volta si confronta con il periodo della Guerra Fredda e, in particolare, proprio con le dinamiche che hanno caratterizzato le tensioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Per raccontare questo conflitto a distanza, Spielberg ha deciso di prendere il punto di vista insolitamente distaccato di un americano, un avvocato, quindi il simbolo della menzogna per interessi economici. Questo avvocato, però, è tanto dedito al suo lavoro (non gli interessa sapere se il suo assistito è realmente colpevole) quanto affascinato dal suo cliente, un uomo di una sicurezza e una tranquillità fuori dal normale. E proprio perché Donovan conosce le dinamiche della giustizia statunitense, che processa una “spia” solo perché la democrazia lo impone, si meraviglia del comportamento di Abel che alla domanda “Ma non ti preoccupa?”, la “spia” risponde “Servirebbe?”, come una sorta di cinico tormentone.

Il lavoro sui personaggi, magnificamente delineati sulla sceneggiatura che porta la firma dei fratelli Coen, è avvalorato dalla magnifica interpretazione dei due attori coinvolti. Se Donovan ha il volto rassicurante dell’uomo-garanzia Tom Hanks, è Mark Rylance nel ruolo di Abel a lasciare davvero il segno.

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Ma Il ponte delle spie va oltre la dinamica del film processuale, relegata alla sola tranche iniziale, per dedicarsi poi al meccanismo di trattativa/scambio ostaggi che l’avvocato deve intrattenere sia con il governo sovietico che con quello tedesco, terzo incomodo per il patteggiamento di un ulteriore ostaggio, uno studente americano catturato per errore a Berlino Ovest. Così facendo, il film diventa un’ampia e allo stesso tempo linearissima vicenda, stratificata ma ordinata, capace di evadere da qualsiasi cliché del cinema storico/spionistico per costruire un’identità inedita e del tutto personale. Il ponte delle spie inizia, infatti, nel segno della migliore tradizione del cinema spionistico, con un incipit che ha dell’hitchcockiano, per virare poi nei toni quasi della commedia, dove il tocco dei Coen si fa sentire.

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Segno inconfondibile del cinema spielberghiano è la descrizione del nucleo famigliare, quello dell’avvocato Donovan ma anche della presunta famiglia tedesca di Abel: la prima è la classica famiglia americana che si raccoglie la sera a cena attorno a una tavola imbandita dove emergono dubbi, battute e problematiche; la seconda è una famiglia distratta, palesemente posticcia, antitesi di quella precedentemente vista a Brooklyn. Ma la descrizione del nucleo famigliare americano, questa volta, lascia un che di amaro nella bocca perché nella situazione in cui Donovan si trova, vessato dall’opinione pubblica, sembra aver negata la complicità anche dei suoi cari, con una moglie che non approva il suo ruolo di difensore del “nemico” e il crescente pericolo per un lavoro scomodo che rischia anche di mettere a rischio l’incolumità della famiglia.

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Il ponte delle spie è un film avvincente, dalla costruzione narrativa pressoché perfetta e classico nello stile. Qualcuno potrebbe avere da ridire riguardo questo eccesso di classicismo che tende anche a sfociare nel rassicurante, ma l’intento è proprio questo: raccontare gli anni 50 con una confeziona che si confà al cinema di quell’epoca, ma con il ritmo narrativo più moderno.

Con Il ponte delle spie Spielberg ci dona il suo lavoro più riuscito da almeno dieci anni a questa, probabilmente dal bellissimo Munich, altro film storico che condivide con l’ultimo una ricostruzione d’epoca impeccabile. Non ci meraviglierebbe l’assegnazione di qualche statuetta alla prossima notte degli Oscar.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Una storia avvincente raccontata con grande senso dell’intrattenimento.
  • Personaggi ben caratterizzati.
  • Grandi attori, a cominciare dal sorprendente Mark Rylance.
  • Ricostruzione storica perfetta.
  • Una tendenza a quell’ottimismo di stampo prettamente spielberghiano che a qualcuno potrebbe infastidire.
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