Molly’s Game, la recensione

Oggi a Hollywood il potere e l’influenza di uno sceneggiatore può essere pari o superiore a quello di un regista o un attore. Ce lo insegna Aaron Sorkin, che negli anni è diventato una vera istituzione per il cinema e la televisione made in USA, fino al suo esordio alla regia nel 2017 con Molly’s Game.

Il primo script importante firmato da Sorkin risale al 1992, Codice d’onore, il che lo porta a lavorare come script doctor per film del calibro di Shindler’s List, The Rock e Nemico pubblico. Una carriera tutta in ascesa che arriva alla serie tv West Wing – Tutti gli uomini del presidente, a cui segue un periodo buio fatto di droga, alcool e prigione. La seconda occasione per Sorkin arriva nel 2007, con nuove importanti commissioni, tra cui The Social Network di David Fincher, che gli è valso un Oscar e l’ha fatto diventare uno degli sceneggiatori più coccolati da Hollywood. Dagli Oscar (candidatura anche per L’arte di vincere) alla regia il passo è stato breve e Sorkin si è trovato tra le mani il romanzo autobiografico di Molly Bloom – Molly’s Game: From Hollywood’s Elite to Wall Street’s Billionaire Boys Club, My High-Stakes Adventure in the World of Underground Poker  – commissionatogli dal produttore Mark Gordon per ricavarne una sceneggiatura. Due anni travagliati di produzione e Sorkin viene eletto anche regista esordiente per portare sul grande schermo la storia vera di una ragazza, ex promessa dello sci, che diventa una delle più importanti signore del poker clandestino di Los Angeles.

Una storia con molto potenziale che, purtroppo, diventa un film tedioso e davvero poco interessante.

Molly Bloom aveva una carriera nello sci olimpionico finché un incidente in pista le crea gravi lesioni alla spina dorsale impedendole di continuare con lo sport. Decisa a iscriversi a giurisprudenza a Harvard, Molly sbarca il lunario come assistente a un organizzatore di bische clandestine, finché viene licenziata senza giusta causa… ma il passo era ormai fatto: i segreti erano stati carpiti, i clienti conosciuti e Molly decide di diventare lei stessa un’organizzatrice di partite di poker a Hollywood. Sempre sul filo rosso che separa la legalità dalla illegalità, Molly si trova ben presto al centro di un giro di soldi che fa gola alla mafia e in mezzo a ricatti legati a importanti personalità dello spettacolo che hanno il vizio del gioco.

Il film parte dalla fine, o quasi. Ovvero da una Molly ormai al verde e messa alle strette dall’FBI, con un’accusa sulle spalle per organizzazione di gioco d’azzardo. L’unica soluzione per lei è l’aiuto di un avvocato in gamba come Charlie Jaffey, troppo costoso per lei, ma deciso a portare comunque avanti la causa come “favore”.

Incastrando passato e presente in un montaggio che è forse la cosa più riuscita del film, Aaron Sorkin decide di far emergere con prepotenza tutta la sua personalità autoriale di sceneggiatore. Molly’s Game è un film torrenziale, parlatissimo, chiacchiere su chiacchiere che si intrecciano con una voce narrante invadente per ben 140 minuti. Una scelta stilistica, oltre che narrativa, che riuscirebbe a sfiancare anche lo spettatore più tenace.

Al di là del fatto che due ore e venti minuti sono davvero eccessive per raccontare questa storia, Molly’s Game ha il potere di riuscire a guadagnare il disinteresse dello spettatore. Il film parte “a bomba”, con il passato sciistico della protagonista e l’infrangersi del suo sogno olimpico raccontato come nel prologo di Magnolia di Paul Thomas Anderson. Una promessa d’intenti che stuzzicherebbe l’interesse del cinefilo più incallito. Però, con il procedere dei minuti e il progredire della trama, che si trova presto in una situazione di stallo, ci si rende conto che a Sorkin interessa solo intessere dialoghi compiaciuti che si sovrappongono velocissimi fino a creare la confusione totale. Il risultato è che si perde con facilità le fila del discorso, inteso proprio come dialogo continuo, voce inarrestabile, con l’effetto distrazione praticamente dietro l’angolo.

Nel ruolo della protagonista c’è Jessica Chastain, stupenda e bravissima come sempre, ma in questi ultimi anni imprigionata in una serie di scelte artistiche che le stanno pian piano facendo affossare la carriera. Ad affiancarla Idris Elba, nel ruolo dell’avvocato che funge da richiamo alla figura paterna, nel film impersonata da Kevin Costner in un ruolo di supporto francamente inutile perché aggiunge alla storia di Molly Bloom quel sapore peripatetico che non appartiene a questo tipo di film.

Molly’s Game non funziona, è un film destinato a non far botteghino e allo stesso tempo non presenta particolari meriti artistici. Ci si chiede, dunque, perché. Perché realizzare Molly’s Game, perché in questo modo. E l’unica risposta possibile è che sia stata concessa troppa libertà artistica a Sorkin, il Grande e Potente Sorkin, che nonostante la ventennale carriera a Hollywood rimane un regista esordiente.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Jessica Chastain, sempre fantastica ed elegantissima, anche nei peggiori film.
  • Chiacchiere, chiacchiere e chiacchiere.
  • Troppo lungo per il modo in cui è raccontato.
  • Ad un certo punto è inevitabile distrarsi.
  • La back-story con Kevin Costner, inutilmente patetica.
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Valutazione: 4.0/10 (su un totale di 1 voto)
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Molly's Game, la recensione, 4.0 out of 10 based on 1 rating

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