Black Phone, la recensione

Nel 2020 l’azienda di comunicazione Broadband Choices ha avviato uno studio scientifico denominato Science of Scare Project che, attraverso un’equipe di medici, ha sottoposto un campione di 250 spettatori alla visione di alcuni film horror per cercare di stabilire, dalla frequenza del battito cardiaco, quale fosse il film più spaventoso tra i selezionati. Il risultato ha decretato Sinister (2012) di Scott Derrickson il più ansiogeno di sempre.

A dieci anni esatti da Sinister, il team che ha dato vita a quel piccolo classico del terrore si è riunito per un’altra perla del brivido, Black Phone. Infatti, Scott Derrickson è tornato a collaborare con lo sceneggiatore C. Robert Cargill e con il produttore Jason Blum per portare al cinema uno dei primi racconti di Joe Hill, figlio di Stephen King, contenuto nell’antologia Ghosts.

Siamo nel 1978 in una cittadina del Colorado. I bambini stanno scomparendo uno dietro l’altro e testimoni dicono di aver visto le vittime interagire con un individuo alla guida di un furgoncino nero, inoltre sui luoghi delle sparizioni sono stati rinvenuti resti di palloncini neri. A finire nella rete del rapitore è il giovane Finney, orfano di madre, vittima di un padre alcolizzato e violento e fratello maggiore di Gwen che sembra aver ereditato dalla genitrice defunta il dono della chiaroveggenza. Quando Finney viene rapito, viene rinchiuso in uno scantinato spoglio in cui ci sono solo un materasso e un vecchio telefono nero con i cavi tagliati. Come per magia, quel telefono squilla e dall’altra parte della cornetta Finney riesce a comunicare con le precedenti vittime del rapitore che iniziano a dargli informazioni su come poter evadere da quella prigione. Nel frattempo, sia la polizia che Gwen sono alla ricerca di Finney.

Scott Derrickson, nonostante abbia in curriculum un successo enorme con i Marvel Studios, ovvero il primo Doctor Strange, è noto ai più proprio per il suo prezioso contributo dato al cinema horror. In fin dei conti è nell’horror che ha esordito nel 2000 con Hellraiser: Inferno, il quinto e tra i più riusciti della saga su Pinhead, proseguendo con l’ormai cult The Exorcism of Emily Rose (2005) e contribuendo al genere, oltre che con il fondamentale Sinister, con il poco ispirato Liberaci dal Male (2014). Insomma, Derrickson è uno che se vuole sa davvero come spaventare lo spettatore!

Black Phone è un altro riuscito passo in questo percorso irto di brividi, un film semplice, molto basilare, che sa toccare le corde giuste per infondere quella sana componente di inquietudine.

Ha un po’ il sapore degli horror adolescenziali di una volta questo Black Phone, quelli che venivano prodotti tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, in cui l’infanzia e l’adolescenza venivano descritti con quel piglio cinico e violento, per nulla edificante, e la famiglia osannata nelle produzioni mainstream era assente se non addirittura il ricettacolo di ogni male.

Non stupisce, infatti, che l’idea di base arrivi dalla mente di Joe Hill che è stato alimentato con gli incubi su carta del papà, quel terrore atavico e primordiale che si nutre fondamentalmente dell’innocenza costringendo i più giovani a crescere troppo presto per affrontare di petto le proprie paure.

Accade al giovane Finney Shaw, ottimamente interpretato da Mason Thames, che prima di incrociare la strada dello psicopatico che lo rapirà ha dovuto fare i conti, oltre che con la crudeltà dei bulli della scuola, con la morte della madre e con la dipendenza dall’alcool del padre, che si è trasformata in insopportabili atti di violenza domestica ai danni suoi e della sua sorellina. Per questo motivo, per Finney l’incontro con il killer è solo un livello successivo del suo personale videogame da incubo, il più complicato, con un boss finale che ha le inquietanti fattezze di un irriconoscibile Ethan Hawke. L’attore di Moon Knight, infatti, non mostra mai il suo volto se non per qualche secondo sul finale, coperto da grottesche maschere luciferine che si rifanno alle fattezze di Lon Chaney in Il fantasma del castello (1927) di Tod Browning.

Per l’infido modus operandi del killer, invece, Derrickson, Cargill e Hill si sono ispirati a John Wayne Gacy, il serial killer mascherato da clown che terrorizzò Chicago negli anni ’70 uccidendo ben 33 giovani.

Ethan Hawke offre una performance memorabile: proprio lui che anni fa dichiarò di non voler mai interpretare personaggi negativi, ha dato vita a uno dei villain più spaventosi e spietati che si siano visti negli ultimi tempi.

L’elemento soprannaturale, che ad un primo acchito potrebbe quasi sembrare superfluo e intruso per una vicenda che si rifà in senso lato alla cronaca nera americana, viene invece ben gestita da Derrickson fino a diventare una naturalissima parte integrante della storia. I “fantasmi” dei bambini uccisi non sono (quasi) mai utilizzati per far paura, come i cliché narrativi del genere dettano, ma sono l’elemento salvifico, l’espediente grazie al quale Finney può avere una speranza di sopravvivenza.

Con un ritmo davvero elevato, Black Phone inciampa solo nella caratterizzazione un po’ macchiettistica di alcuni personaggi di contorno, fino all’inserimento di un personaggio – Max, interpretato da James Ransome di Sinister e Sinister 2 – decisamente superfluo nella sua scrittura eccessivamente grottesca.

Nel complesso, Black Phone fa il suo lavoro in maniera più che egregia, un film che intrattiene con onestà, riesce a spaventare in più di un’occasione e ci dà un gran villain che non sfigurerebbe al fianco di ben noti boogeymen.

Black Phone è nei cinema dal 23 giugno distribuito da Universal Pictures.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Ethan Hawke offre un’interpretazione davvero spaventosa.
  • Ha un gran ritmo, è davvero avvincente!
  • Ha quel sapore da horror adolescenziale tardo anni ’80 che è sempre bello ritrovare.
  • Alcuni personaggi sembrano scritti in maniera più svogliata e approssimativa.
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Valutazione: 7.0/10 (su un totale di 1 voto)
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