Una doppia verità, la recensione
Fare l’avvocato è di certo un mestiere difficile: se poi devi difendere un cliente molto, molto colpevole nonché chiuso in un silenzio ostinato, allora non stupisce che la mattina del processo ti ritrovi in bagno a vomitare l’anima. È quello che succede a Richard Ramsey (Keanu Reeves), impegnato a rappresentare il suo figlioccio Mike (Gabriel Basso) in un processo per patricidio.
Il legal thriller ha conosciuto il suo exploit negli anni novanta, dove ha dato vita a diverse variazioni sul tema pur mantenendo più o meno gli stessi elementi: di solito in questo filone abbiamo un avvocato/procuratore assai scaltro, talvolta cinico, testimoni inaffidabili e conseguenti ribaltamenti della trama. Di fatto Una doppia verità si inserisce talmente bene nel genere da replicarne didascalicamente gli stilemi senza aggiungere nessuno spunto originale. Neanche mezzo, eh.
Ma a tal riguardo si può chiudere un occhio, dato che la sceneggiatura compensa l’assenza di audacia inserendo diversi plot twist che svolgono egregiamente il compito di farci sentire stupidi perché non li avevamo previsti. C’è da dire che noi spettatori durante la visione del film quasi non sentiamo il bisogno di sforzare il cervello, in quanto il ritmo è talmente ben scandito da cullarci in un torpore che non ha a che vedere con la noia, bensì con l’efficacia della macchina hollywoodiana.
Efficacia che però vien meno (o forse trova la sua diretta espressione) in alcuni dei risvolti finali del film, dove i buchi di sceneggiatura uniti a forzature artificiose contribuiscono a ledere il rigore delle sequenze precedenti.
Una doppia verità non risulta dunque né particolarmente bello né particolarmente brutto, ma perlomeno è dignitoso: dopotutto è il meglio che possiamo aspettarci da un film che esce il 15 giugno, ovvero nel periodo di “magra cinematografica” del botteghino italiano.
Giulia Sinceri
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