Dunkirk, la recensione
Non è facilissimo scrivere di un capolavoro annunciato. Soprattutto se, a fine visione, si sente addosso quell’imbarazzo misto a delusione per non aver assistito a quel capolavoro tanto sbandierato.
Dunkirk è un film di Christopher Nolan nel bene e nel male. Quel Nolan post Cavaliere Oscuro, forse un po’ montato dai paroloni di certa critica che lo hanno eletto a erede di Kubrick. E questa sua nuova opera ne è la conseguenza: un film molto rigoroso, tecnicamente fenomenale, ma troppo attento ad adagiarsi sulla perfezione della sua confezione da dimenticare completamente un cuore.
Dunkirk è freddo, gelido. Tanto bello quanto fermo sul suo piedistallo, pronto a guardare tutti dall’altro verso il basso. E questo concerne il limite principale di un film che poteva esserlo davvero un capolavoro, ma si ferma all’esercizio di stile. Uno stile impeccabile e unico, sia ben chiaro, ma che lascia poco allo spettatore a fine visione.
Dunkirk racconta una pagina della Storia non troppo nota, il classico episodio che solitamente non si studia a scuola (almeno non in quelle italiane). Nel 1940 a Dunkerque, in Francia, un corposo numero di soldati inglesi si trova nella spiaggia, assediati dalle truppe tedesche e in attesa di essere evacuati. Il film si struttura su tre archi temporali e con tre punti di vista differenti: sulla terraferma, più precisamente al molo, dove nell’arco di una settimana un soldato inglese cerca di sopravvivere ad agguati e sparatorie; in mare, dove il Signor Dawson e i suoi due figli in una giornata navigano verso la spiaggia di Dunkerque per salvare i soldati compatrioti; in aria, dove tre piloti dell’aviazione inglese sono in viaggio verso la spiaggia di Dunkerque per dare supporto ai soldati in procinto di essere evacuati in un’ora.
Un racconto unico e allo stesso tempo tre diversi episodi della terribile agonia di Dunkerque. Tre linee temporali che si fondono, non sempre con chiarezza, e riescono a fornire un quadro più completo possibile dell’odissea che i soldati inglesi hanno vissuto in quella manciata di giorni nel 1940. Ma a Nolan non interessa raccontare una storia, questo è piuttosto evidente, soprattutto perché il suo film non ha dei personaggi con i quali lo spettatore può identificarsi (il soldato interpretato da Fionn Whitehead forse, ma è solo uno dei tanti), soldati senza identità, tutti troppo simili tra loro e della cui sorte, in fin dei conti, non importa granché. A Nolan interessa costruire un film tecnicamente complesso, una vera esperienza sensoriale che riesca a trasportare lo spettatore direttamente nelle trincee, in mezzo al mare e nella cabina di pilotaggio degli spitfire. Il film, effettivamente ci riesce. Gli effetti sonori e la colonna sonora continua, ossessiva, di Hans Zimmer aiutano tantissimo a creare questo effetto immersivo che stordisce lo spettatore (e un po’ lo sfianca, malgrado il film sia sotto le due ore). E non è un caso se il film sia stato girato in 70mm e in IMAX e così proiettato nei cinema attrezzati, probabilmente il modo ottimale per fruire di quest’opera.
Il cast comprende volti noti come Kenneth Branagh, Mark Rylance, Cillian Murphy e Tom Hardy, ma non si adagia mai sul divismo (basti pensare che Tom Hardy ha il volto coperto per ¾ del film), conducendo con coerenza quell’algido progetto di puntare sul realismo dell’esperienza bellica.
Pochi dialoghi, tante esplosioni. Dunkirk è così. Lascia a bocca aperta durante i primi quaranta minuti, poi riesce a risultare pesante nella sua reiterata ricerca dell’azione estetica.
Siamo un passo avanti a Interstellar, ma c’è l’impressione che quel Nolan degli esordi, il più genuino e sorprendente regista di Memento e The Prestige, sia ormai cresciuto. Purtroppo.
Roberto Giacomelli
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