Good Kill, la recensione

“Noi eseguiamo solo gli ordini” a questa semplice frase si potrebbe ridurre il dramma di ogni guerra. La spersonalizzazione della responsabilità, quella non presa di coscienza testimoniata dalla filosofa Hannah Arent nel libro La banalità del male. Good Kill, diretto da Andrew Niccol, vuole mostrarci la guerra in Iraq e Afghanistan attraverso gli occhi di un pilota. La pellicola mette in luce una guerra in parte nascosta ma estremamente attuale: la guerra dei droni, dei videogiochi e degli schermi, una battaglia da molti considerata codarda e immorale.
Nel corso del film, il pilota Thomas Egan si troverà a mettere in discussione la sua stessa missione: dietro uno schermo e ordini che sembrano sempre più lontani da quello che pensava essere giusto, l’uomo perderà sé stesso e tutte le sue convinzioni.
La forza di Good Kill, termine utilizzato dagli americani dopo un attacco andato a buon fine, risiede nell’aver portato alla luce una guerra non consueta e poco raccontata al cinema. Il Maggiore Egan ha la possibilità di combattere contro i Talebani per diverse ore del giorno e poi tornare a casa per preparare il barbecue. La verità più amara però è che lui non torna mai veramente dalla sua famiglia.
I segni lasciati dalla guerra nella mente umana sono stati raccontati innumerevoli volte sul grande schermo come da Clint Eastwood in American Sniper (solo per ricordare il film più recente) ma questa volta il protagonista vive una schizofrenia legata al desiderio di volare e di vivere una vita pericolosa. Tommy afferma di aver bisogno della paura perché comandando quei droni non rischia nulla; soffre di uno stress post traumatico, nonostante non viva la guerra in prima persona, e percepisce di essere un codardo, di non combattere ad armi pari con il suo nemico. In tutto questo interviene una CIA luciferina (senza volto) che simboleggia tutto il marcio e l’orrore di una guerra senza controllo.
Per tutte queste ragioni, il personaggio del Maggiore Egan, interpretato da Ethan Hawke, aveva davvero molto da offrire al pubblico in un momento in cui i film sull’Iraq sembrano sempre uguali a loro stessi ma nonostante questo lo svolgimento narrativo non è dei migliori. I discorsi sulla guerra sono molti ma non vengono realmente affrontati fino in fondo; non si prende una posizione ma si porta avanti il classico lavarsene le mani di alcuni personaggi (“non sta a noi dire se è una guerra giusta”). Vengono portati in primo piano discorsi qualunquisti che si tendono a ripetere; una ripetizione snervante che si avverte anche nelle moltissime scene di guerra che non aiutano la visione essendo delle vere sequenze fotocopia.
Del personaggio di Ethan Hawke non è chiara al pubblico la sua inspiegata voglia di tornare in prima linea: è un desiderio detto ma non approfondito. Il protagonista non viene supportato da dialoghi che aiutano a capire la sua psicologia e si perde tra un sorso di vodka e l’altro. Il rapporto con la moglie sembra un ottimo quadretto ma di esso non rimane quasi nulla.
Date le sequenze molto simili sul campo di battaglia, le scene di vita quotidiana dovevano rappresentare l’altro lato del suo malessere e del suo desiderio di vivere veramente la guerra. Una moglie bambolina, due figli che potevano tranquillamente non esserci (ingiustificabilmente lasciati ai margini della narrazione) e una classica violenza post-traumatica riassumono il personaggio.
Il resto del cast non brilla per originalità: Bruce Greenwood è il consueto Tenente tutto d’un pezzo che ripete agli altri sempre le medesime frasi, quasi per convincersi delle sue azioni. Zoe Kravitz sembra che sia stato inserita solo per ristabilire il gender balance; un’attrice sprecata per dire quattro battute prive di senso che soprattutto nelle scene finali raggiungono l’imbarazzo generale.
Non dimentichiamoci che nel curriculum di Andrew Niccol troviamo pellicole importanti come Gattaca e la sceneggiatura di The Truman Show e anche in questo Good Kill costatiamo la buona idea di partenza, far vedere una guerra diversa, digitale e terribilmente distante da quella di Kathryn Bigelow, ma il suo svolgimento risulta tristemente piatto e privo di spessore sia narrativo che morale.
La guerra è sicuramente cambiata ma Good Kill non riesce a mostrarcela con la dovuta chiarezza e profondità.
Matteo Illiano
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