Joy, la recensione
Il bianco e nero di una vecchia quanto improbabile soap opera innesca la vicenda di Joy Mangano, una ragazza che si fa carico di talmente tante responsabilità da trovare il tempo anche di inventare il mocio. È una storia vera quella raccontata in Joy, e la Mangano è esistita sul serio: donna irreprensibile, di grande ingegno, pazienza, sensibilità e talento, che sul finire degli anni ’60 progettò quella che in seguitò le casalinghe d’America impararono a conoscere come Miracle Mop, la scopa assorbente che si strizza da sola.
Una scelta bizzarra da parte di David O’Russell, penserete voi, perché raccontare la storia dell’inventrice del mocio non è proprio la strada più semplice per accattivarsi un pubblico di massa, eppure il talentuoso regista di Il lato positivo e American Hustle riesce, ancora una volta, a fare il miracolo e rendere dannatamente interessante e avvincente una storia che di appeal sulla carta non ne ha molto.
Il merito della bontà di Joy è principalmente nella sceneggiatura perché, non dimentichiamo, O’Russell prima di essere un sagace direttore di attori è un ottimo sceneggiatore, capace di scrivere dialoghi brillanti e metterli in bocca a personaggi costruiti a puntino per risultare vicini allo spettatore. Stringendo, Joy è il classico film che racconta per l’ennesima volta il Sogno Americano, la determinazione di una persona qualunque nell’intraprendere una strada tortuosa con la convinzione di portare a termine i propri obiettivi e il conseguente successo. Un iter narrativo visto e stravisto che in mano a O’Russell assume quel fascino tutto particolare di chi una storia te la sa raccontare con brio e senso della narrazione e dello spettacolo.
Lo spettatore si avvicina a Joy Mangano e, dopo pochi minuti, è come se la conoscesse da una vita, finendo immediatamente a parteggiare per lei, a soffrire delle sue molte sfortune e gioire dei suoi successi. Siamo di fronte a una moderna Cenerentola, vessata da una sorella che sembra avere il compito di metterle i bastoni fra le ruote, costretta – letteralmente – a stare con le ginocchia a terra a sbrigare qualsiasi tipo di lavoro domestico e, infine, aiutata da un “principe azzurro”, tra mille difficoltà, ad esaudire il suo desiderio.
Ma se è ovvio puntare a un protagonista per costruire un film vincente, è meno ovvio avere tutto uno stuolo di personaggi secondari così ben delineati da innamorarsene immediatamente. E così abbiamo un padre lunatico e rancoroso che ha il volto e la simpatia di Robert De Niro, che non riesce proprio ad andare d’accordo con una ex moglie, interpretata da Virginia Madsen, teledipendente e malata immaginaria, che passa intere giornate a letto a guardare una soap infinta che scandisce con i suoi improbabili colpi di scena ogni momento della vita di Joy. Poi c’è un’amorevole nonna narratrice onniscente, un ex marito (Edgar Ramirez) che vive in cantina della ex moglie e le fa da agente e supporter, una finanziatrice che ha il caschetto nero di Isabella Rossellini e un bravissimo Bradley Cooper re delle televendite. Tutto rema a favore di Joy, che in più ha una protagonista in stato di grazia, Jennifer Lawrence forse agli apici della sua carriera, non a caso già detentrice di un Golden Globe per il ruolo e in lizza per l’Oscar.
Poi si, siamo difronte alla solita parabola ottimista in cui i “buoni” vengono ripagati di tutti i loro sacrifici mentre sono ricoperti da una nevicata palesemente posticcia e i “cattivi” ne escono sconfitti con la coda tra le gambe. Ma O’Russell ce lo mostra fin dall’inizio il parallelismo con quella soap che sembra contenere incredibilmente tutte le risposte alla vita quotidiana, giocando a carte scoperte l’artificiosità della sua storia vera.
Un altro centro per O’Russell!
Roberto Giacomelli
PRO | CONTRO |
|
|
Lascia un commento