La Stirpe del Male, la recensione
Se L’ultimo esorcismo e L’altra faccia del Diavolo avevano esplorato con la tecnica del mockumentary il filone sulle possessioni demoniache, dovevamo senz’altro aspettarci che il found footage esplorasse anche il mini-filone che più è affine a quello esorcistico, ovvero quello delle gravidanze demoniache. E puntualmente arriva La stirpe del male (Devil’s Due), titolo sul quale la Fox puntava decisamente molto e che invece ha rappresentato un sonoro flop al botteghino statunitense, raccogliendo, tra l’altro, una serie di critiche negative da far invidia a Uwe Boll.
Zach e Samantha si sposano e vanno in viaggio di nozze a Santo Domingo. Tra escursioni e vita mondana, i due si lasciano portare da un taxista in un night club, dove accade qualche cosa di insolito. I due si risvegliano la mattina dopo nella loro camera d’albergo con un gran mal di testa e un lieve vuoto di memoria, ripartendo per gli Stati Uniti come se nulla fosse. Tornati a casa, Sam scopre di essere incinta anche se ha preso regolarmente la pillola. La gravidanza inizia nel migliore dei modi, ma pian piano nella donna qualche cosa comincia a cambiare, sviluppando una serie di inquietanti poteri psichici e una forza fuori dal comune. Inoltre qualcuno sta controllando insistentemente la casa degli sposini.
Malgrado La stirpe del male abbia dei limiti piuttosto evidenti, forse il destino gli ha voltato eccessivamente le spalle perché se preso esclusivamente come esponente semantico del mockumentary, qualche cosa da dire ce l’ha. Ma cominciamo da cosa non funziona in questo film.
Innanzitutto La stirpe del male arriva tardi, nel suo essere un found footage “classico” appare dannatamente datato, palesandoci quanto stia apparendo ormai limitato (e limitante) questo linguaggio per il cinema horror. Malgrado ci sia una continua ricerca di punti di vista differenti che siano la handycam dei protagonisti, le videocamere di sorveglianza di parcheggi e negozi, riprese di un circuito chiuso casalingo e smartphone in mano a terzi, un po’ come accadeva nel geniale superoistico Chronicle, La stirpe del male trasmette un senso di staticità narrativa e visiva che lo accomuna in maniera piuttosto evidente ai primi Paranormal Activity. E probabilmente la saga prodotta da Oren Peli e Jason Blum è il vero fulcro ispiratore di tutto, dal momento che l’utilizzo di una setta demoniaca e la sopraggiunta di poteri sovrumani nella protagonista, accomunano in maniera piuttosto palese questo film alla citata saga con il demone casalingo. Non troviamo, dunque, reali novità in questo lavoro e se appare altrettanto evidente la voglia di esplorare nuovi orizzonti tematici che ricolleghino a film di culto del passato come Rosemary’s Baby e The Belivers – I credenti del male (con un pizzico del carpenteriano Il signore del Male), si nota per lo più una stanca reiterazione di cose già viste e già dette gli ultimi 5-6 anni.
Alla regia ci sono Matt Bettinelli-Oplin e Tyler Gillett, che si erano già cimentati con il linguaggio mockumentary con l’ultimo episodio del primo V/H/S, uno dei più riusciti dell’antologia, e anche in questo caso si possano trovare diverse affinità con La stirpe del male che vanno oltre il linguaggio utilizzato, dalla setta satanica al concitato finale che mostra gli effetti demoniaci direttamente sull’infrastruttura casalinga.
Quello che invece funziona in La stirpe del male è una certa cura a livello di sceneggiatura, soprattutto nella scrittura dei dialoghi, che difficilmente si nota in questo tipo di film. C’è uno script elaborato, perfettamente costruito in tre atti, e i personaggi dicono e fanno cose credibili (beh, certo, la tendenza a riprendere tutto anche quando non ce ne sarebbe bisogno è presente anche qui…), riuscendo a farci affezionare a loro. In particolare si nota una certa bravura e coinvolgimento nella protagonista femminile, Allison Miller, già vista in The Last Vampire e TerraNova, che riesce a rendere con efficacia il progressivo cambiamento dato dalla gravidanza del suo personaggio.
Dispiego di effetti visivi superiore allo standard che giustificano, infatti, i 7 milioni di dollari di budget, anche se ne viene fatto un uso intelligente e mai invasivo.
Insomma, a conti fatti, La stirpe del male appare con un’occasione sprecata, la possibilità di dire qualche cosa di nuovo con la tecnica del mockumentary si traduce nell’effettiva ulteriore ripetizione dei soliti cliché e delle solite situazioni. Si lascia guardare e non è di certo tra i peggiori esponenti di questo settore, ma sinceramente non se ne sentiva affatto il bisogno.
Roberto Giacomelli
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