Maleficent – Signora del Male, la recensione
Te lo giuro, impedirò che ti venga fatto del male finché io avrò vita e non un giorno passerà senza che mi manchi il tuo sorriso…
Diceva Malefica alla principessa Aurora dopo aver rotto l’incantesimo grazie al suo bacio, che era quello del vero amore, l’amore materno. E così vissero felici e contenti nella rivisitazione live action Disney di La bella addormentata nel bosco, Maleficent, che nel 2014 fece guadagnare quasi 800 milioni di dollari alla Major di Topolino consacrando definitivamente l’idea di resettare i classici d’animazione per versioni con attori in carne ed ossa. Ma nel 2014 l’idea dei remake live-action era ancora embrionale e poco centrata, così ci trovavamo una versione “alternativa” della fiaba di Charles Perrault, dal punto di vista del villain, che azzardava perfino una conclusione ben differente da quella che il 16° classico d’animazione Disney aveva fornito nel lontano 1959. Ovviamente l’audace punto di vista del villain era, in fin di conti, solo uno specchietto per le allodole, visto che il film con Angelina Jolie ci mostrava una Malefica fin troppo buona e accomodante, pronta per diventare una nuova icona Disney, proprio come le principesse che hanno sempre contraddistinto lo Studio di Burbank.
Cinque anni dopo, ritroviamo Malefica, Aurora e le tre fatine imbranate al centro di una nuova avventura in Maleficent – Signora del Male, in cui appurato il buon cuore di Malefica, possiamo scovare una nuova perfida villain, la Regina Ingrid, madre del Principe Filippo. Il film, infatti, parte dal presupposto che Aurora e Filippo stanno per convolare a nozze e prima di procedere con i preparativi, i genitori del Principe vogliono conoscere la tutrice di Aurora, Malefica, invitata a corte per una cena. Però l’incontro tra consuoceri si trasforma in occasione di imbarazzo per Aurora, visto che Malefica, provocata dalla Regina, reagisce molto male e fornisce il movente per un maleficio ai danni del Re, invece causato proprio dalla Regina. Ferita a morte dalle guardie del Re, Malefica viene salvata da una creatura alata che la conduce nel suo regno e lì scopre che le fate della sua specie non sono estinte ma si nascondono lontane dagli occhi degli umani, ai quali hanno giurato odio.
Adagiandosi su collaudatissime meccaniche fantasy sdoganate da Il Signore degli Anelli e sequel/prequel, Maleficent – Signora del Male si scrolla di dosso gli abiti della fiaba monocentrica e si espande, diventando un film corale. Ritroviamo gran parte dei personaggi del primo film impegnati a gestire le conseguenze di quanto raccontato, nonostante la voce narrante iniziale voglia farci credere che Malefica sia ancora la creatura più temuta del Regno. Ben presto, però, facciamo la conoscenza di Ingrid, una dispotica Regina a cui dà corpo la sempre splendida Michelle Pfeiffer, e capiamo che l’interesse dello spettatore sarà monopolizzato da lei. Il personaggio di Ingrid, infatti, è ben più sfaccettato di Malefica, cattiva, cattivissima ma con un piano ben delineato e una coerenza di comportamento che la porta a sacrificare tutto, anche i famigliari, per il suo Regno. Un bel personaggio a cui viene giustamente dato spazio in quell’ottica di coralità che vede la vicenda tripartita per ciascuna donna del film.
Appurato che Aurora è ancora una volta vittima degli eventi, stavolta divisa tra l’amore per il futuro sposo e la matrigna, il personaggio che paradossalmente appare meno interessante è proprio Malefica che qui perde il suo primato di “ultima della specie” e si ritrova a dare il resto a un esercito di bellimbusti alati guidato da Chiwetel Ejiofor di Dottor Strange e Ed Skrein di Deadpool.
Come si diceva, il debito che Maleficent – Signora del Male ha nei confronti del fantasy tolkeniano è grande tanto che l’ultimo atto del film è rappresentato dalla classica epica battaglia che tanto deve a quella del Fosso di Helm, con gli eserciti che si fronteggiano e creature fantastiche che sbucano da ogni dove, con tanto di fate che si preparano alla battaglia allo stesso identico modo degli Uruk-Kai. Un gigantesco senso di déjà-vu che comunque non impedisce un godibilissimo spettacolo fatto di azione spettacolare e stupefacenti effetti visivi.
Peccato che poi un buonismo zuccheroso e dal messaggio pacifista e inclusivo vada a mettere i puntini sulle “i” in un epilogo forzato e inutilmente pomposo. In fin dei conti siamo in una fiaba Disney e non dobbiamo mai dimenticarlo!
Roberto Giacomelli
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