Nell’erba alta, la recensione
Quello tra il cinema e la letteratura è senza dubbio il legame tra arti più stretto e forse più redditizio, con l’horror che da sempre ha rappresentato il filone della settima arte più incline ad attingere a piene mani da racconti e romanzi degli autori più famosi. E così, se fino agli anni Settanta lo scrittore più trasposto sul grande schermo è stato Edgar Allan Poe, dagli Ottanta in poi tale scettro è finito nelle mani di Stephen King. I best seller dello scrittore del Maine, infatti, hanno avuto quasi sempre una doppia vita tra carta e pellicola, con risultati altalenanti che hanno diviso generazioni di fan e di cinefili. Questa volta tocca al racconto Nell’erba alta, scritto insieme a suo figlio Joe Hill, essere portato sullo schermo con un film omonimo prodotto da Netflix e realizzato da quel Vincenzo Natali che dopo lo strabiliante e oramai lontano Il Cubo, e diverse regie di episodi di serie tv, torna a realizzare una storia claustrofobica e con protagonista uno spazio interno che diventa un labirinto malefico e irto di insidie per un gruppo di persone.
Il ritorno alle origini, però, non si rivela una scelta azzeccata per il regista di chiare origini italiane in quanto il suo Nell’erba alta disperde quasi del tutto l’essenza della storia di King, rivelandosi a conti fatti un film privo di mordente e della giusta tensione psicologica che avrebbe dovuto al contrario trasmettere.
Cal e Becky sono due fratelli in viaggio che effettuano una sosta per permettere alla donna incinta di rifocillarsi. Durante questa pausa, però, un grido di aiuto di un bambino, proveniente dal campo di erba alta situato ai lati della strada, attira i due che decidono di entrarvi per aiutare il piccolo. Ben presto Cal e Becky capiranno di aver commesso un grave errore e il campo di erba alta si trasforma in un temibile labirinto nel quale né loro né le altre persone presenti riusciranno ad orientarsi. E questa purtroppo non è l’unica insidia che si nasconde al suo interno….
“Siamo come l’erba alta: moriremo e risorgeremo”, questa frase detta da uno dei protagonisti del film incarna a pieno il tema dell’ineluttabilità degli eventi e il loro ripetersi all’infinito, molto caro a King. Nel film di Natali, tuttavia, questo non è l’unico elemento caro allo scrittore statunitense a essere riproposto: abbiamo, infatti, la follia lucida e al tempo stesso maligna di Ross (interpretato da Patrick Wilson) che ricorda tanto quella di Jack Torrence di Shining; la potenza malefica e manipolatrice di uno spazio chiuso che corrode gli animi dei protagonisti; ed infine la tendenza a creare varie dimensioni narrative e temporali con l’obiettivo, poi, di far coincidere tutti i pezzi del puzzle.
Natali dunque si trova tra le mani un potenziale interessante, che però spreca in toto confezionando un film mal congegnato in tutti i suoi punti e che quasi mai risulta avvincente e teso. Ciò avviene per via di una sceneggiatura, scritta dallo stesso regista, poco attenta nel tratteggiare le psicologie di personaggi che appaiono sempre più piatti e monotoni nel loro sviluppo, andando così a svilire la natura di un thriller che avrebbe proprio nel rapporto tra essi e la loro evoluzione il proprio punto di forza. Come se non bastasse, a questa criticità si aggiunge la quasi totale mancanza di ritmo che ha come risultato quello di assistere a parecchi momenti di stallo, una lunga fase preparatoria lenta e monocorde e un prosieguo dell’intreccio scarno di pathos e di momenti da ricordare.
Le note negative arrivano, infine, anche dal comparto visivo e dalla gestione delle poche scene di tensione la cui resa si rivela modesta e inefficace a trasmettere paura in chi guarda.
Nell’erba alta quindi fa acqua da tutte le parti e conferma la frequente difficoltà nel trasporre al cinema i romanzi dello scrittore di racconti dell’orrore più famoso al mondo.
Vincenzo de Divitiis
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