Still Alice, la recensione

Alice Howland, moglie devota e madre di tre figli, è un’affermata professoressa di Linguistica conosciuta in tutto il mondo, con una cattedra alla Columbia University di New York. Nella sua vita non c’è niente che non vada, fino al giorno in cui, mentre relaziona come ospite in una sala gremita di gente alla UCLA di Los Angeles, accade qualcosa di strano: all’improvviso le mancano le parole per continuare il suo brillante discorso. E’ questo il primo sintomo di una rara forma di Alzheimer precoce da cui, di lì a poco, scoprirà di essere affetta. Ha inizio da qui il “declino” di Alice, interpretata da una Julianne Moore in stato di grazia: con una velocità dirompente, si vedrà inesorabilmente sottratta delle sue facoltà cognitive, perdendo ogni ricordo che le apparteneva come donna, una donna che rappresentava il caposaldo della sua famiglia e giunta all’apice della sua professione.

La scena che apre il film, dove Alice festeggia felice il suo cinquantesimo compleanno, simboleggia il capolinea del suo vissuto da individuo in pieno possesso delle proprie capacità, sia mentali che fisiche. La coraggiosa realizzazione del film Still Alice, presentato in prima mondiale al Toronto International Film Festival, prende le mosse dal best seller opera prima della neuroscenziata di Harvard e scrittrice Lisa Genova, pubblicato in Italia nel 2009 con il titolo Perdersi. I registi Richard Glatzer e Wash Westmoreland hanno visto in Julianne Moore l’incarnazione del personaggio di Alice fin dalla prima lettura del romanzo, facendo sì che l’attrice “possedesse” il film affiancata da un cast che, nonostante vantasse grandi nomi (da Alec Baldwin a Kristen Stewart), fungesse solo da contorno alla sua performance, senza intaccarne la predominanza in scena. Questo si evince sia da scelte di copione sia dalle soluzioni tecniche adottate, come per esempio l’annullamento del controcampo nelle sequenze di dialogo, affinché le riprese fossero costruite interamente intorno ai primi piani della Moore.

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La riuscita del film era tutta nel corpo e nella voce della superba attrice, che si prende l’onere non facile di raccontare, attraverso la sua intensa interpretazione e in modo onesto e credibile, l’esperienza in soggettiva di Alice intrappolata nel morbo di Alzheimer, una malattia che oggi colpisce 36 milioni di persone nel mondo. Il pubblico prova empatia e si sente dentro la sua tragica storia. In ogni stadio della perdita di un pezzettino di sé, l’attrice adotta un approccio emotivo ed espressivo differente; Alice è perfettamente cosciente di cosa le sta accadendo, e sa bene che tutto quello per cui ha lavorato è perduto: da studiosa del linguaggio e amante della comunicazione, si sarebbe ridotta ad avere difficoltà nel parlare, completamente priva della memoria tanto cara su cui aveva basato la sua esistenza. Si definisce “maestra dell’arte di perdere” e capisce l’importanza del vivere l’attimo, trovando addirittura la forza e la lucidità di parlare a se stessa registrando un video che le avrebbe spiegato, in una fase più avanzata della malattia, come porre fine alla sua sofferenza.

E’ vero che la centralità del ruolo della protagonista era prioritaria, ma ciò non giustifica il fatto che alcuni personaggi, come il marito John (Alec Baldwin) e la figlia maggiore Anna (Kate Bosworth), non siano sviluppati come dovrebbero, né tantomeno lo sono i rapporti interpersonali con essi. Della famiglia, chi condivide maggiormente il suo dramma è Lydia, figura ben delineata, figlia ribelle e fisicamente lontana, un ruolo che Kristen Stewart (ex vampira della saga Twilight) ricopre davvero dignitosamente; vive a L.A. e vuole fare l’attrice di teatro, una scelta in principio non approvata dalla madre, che avrebbe preferito per lei un percorso più sicuro in previsione del futuro. Sarà la malattia ad avvicinarle, rendendo Alice più tollerante rispetto alla strada intrapresa da Lydia, la quale, da parte sua, diventa più responsabile e attenta alla madre. Meritevoli di nota gli intensi dialoghi tra madre e figlia, come quello in cui Alice paragona la sua vita a quella di una farfalla, breve ma bellissima.

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Still Alice è un racconto mentalmente violento di vita e di morte, che ha portato l’attrice a entrare in contatto con l’Alzheimer Association, e in un certo senso a essere una sorta di ambasciatrice che in qualche modo, interpretando questo personaggio sul grande schermo, ha contribuito all’approfondimento della percezione pubblica su questa orribile malattia. È veramente commovente vedere con che umiltà un “mostro sacro” come Julianne Moore fa compiere questo viaggio di non ritorno alla sua protagonista, che si addentra sempre più nella patologia in un’irreversibile regressione, inversamente proporzionale alla sua bravura da interprete. Nel corso della sua carriera la Moore è stata nominata 4 volte agli Oscar, 8 ai Gloden Globe, e 3 ai BAFTA, ed è una delle poche attrici ad aver ricevuto lo stesso anno due nomination all’Oscar per Lontana dal Paradiso (per cui ha anche vinto la Coppa Volpi, 2002) e per The Hours (Orso d’Argento al Festival di Berlino, 2003). Conosciuta per la sua polivalenza nella recitazione, ha toccato con grande maestria e professionalità generi e stili diversi. Che sia finalmente arrivato il momento di premiarla con un Oscar?

Still Alice è stato proiettato per la prima volta in Europa al 9° Festival Internazionale del Film di Roma, dove era in gara nella sezione Gala e verrà distribuito nelle sale italiane da Good Films il 22 gennaio 2015.

Claudia Porrello

PRO CONTRO
  • La storia affronta con la giusta delicatezza un argomento d’interesse pubblico mondiale.
  • L’interpretazione di Julianne Moore, che nel ruolo di Alice domina il film, è da Oscar.

 

  • I personaggi che ruotano attorno all’attrice sono poco approfonditi, così come i rapporti interpersonali con essi.

 

 

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