Shaft, la recensione
Samuel L. Jackson torna a vestire i panni di John Shaft. No, non l’icona della blaxploitation cui Richard Roundtree diede il volto nei primi anni ’70: suo figlio. Anch’egli chiamato John Shaft. Così come il terzo della dinastia, interpretato da Jessie T. Usher. Tutti e tre John Shaft. Se le omonimie vi turbano, vedetela così: dei cinque film che oggi compongono la saga, tre s’intitolano Shaft. Quando si dice la coerenza.
John Shaft Junior (Jesse Usher), JJ per gli amici, è un analista dell’FBI. Non vede suo padre da quando era piccolo. A parte gli imbarazzanti regali di compleanno (preservativi e riviste porno), non ha contatti con lui. Le cose cambieranno quando JJ si ritroverà a indagare sulla morte del proprio amico più caro. Osteggiato dal diretto superiore dell’FBI e consapevole di non potersela cavare da solo contro la mala locale, JJ chiede aiuto al papà (Samuel L. Jackson), ora detective privato. Prende così avvio il più classico dei buddy movie.
I due Shaft sembrano essere come acqua e olio: dove il vecchio è violento, assertivo e misogino, il giovane è maldestro, rispettoso e pacifista. Non che sia una completa mammolletta, il buon JJ: nel corso dei 111 minuti lo scopriremo asso del computer, abile pistolero (“ho detto che non mi piacciono le armi, non che non le so usare“), maestro di capoeira… ma solo da ubriaco! Non è quindi l’abilità o la competenza a separare i due protagonisti, ma l’approccio. Una differenza che incarna il tema più forte del film: lo scontro generazionale.
Un titolo come Shaft porta sulle spalle un’eredità non da poco. Il primo film, a partire dalla leggendaria colonna sonora di Isaac Hayez, è l’icona di un genere rivoluzionario, di fortissima risonanza sociale. Le pellicole della blaxploitation sono state le prime a mettere in scena protagonisti afroamericani, tematiche razziali, il tutto condito da memorabili sonorità funk. Oggigiorno simili temi non potrebbero essere affrontati come allora. Questo il film lo sa e lo dimostra: non a caso Shaft padre accusa JJ di essere “troppo bianco”. Per la musica che ascolta, il modo in cui veste, le cose che mangia, l’arredo di casa. Troppo bianco, o al massimo omosessuale.
Il confronto tra lo Shaft di una volta e quello moderno è il cuore pulsante del film, nonché la fonte delle sue battute migliori. Non giriamoci attorno: Shaft è una action comedy. Non nasconde la benché minima velleità di analisi o critica sociale, o perlomeno non più di quanta ce ne voglia per imbastire una gag. E dire che le tematiche toccate sono tante, su tutte il sospetto covato nei confronti delle comunità musulmane, lo spauracchio del terrorismo. Ma il film non vuole mostrarsi politico come alcuni suoi predecessori: ogni questione sollevata non è che la scusa per sballottarci tra un motherfucker e una sparatoria.
Purtroppo anche il tema cardine, l’incontro-scontro generazionale, non viene trattato con maggiore profondità: il film è spudoratamente pro-Shaft padre, il movimento d’incontro del tutto unidirezionale. È JJ che deve dimostrare di essere uno Shaft (cioè un duro, maschio alfa, sboccato e dal grilletto facile), non Shaft che deve imparare qualcosa dal figlio.
Paradossalmente è proprio da questa sciocca irriverenza che Shaft tira fuori i suoi momenti migliori: quelle uscite così politicamente scorrette che non possono non strappare un sorriso.
Non si può non menzionare il cameo di John Shaft Senior (Richard Roundtree). Lo Shaft OG ne esce come una versione invecchiata dello Shaft di Jackson (fun fact: tra i due attori ci sono solo 6 anni di differenza!) sulla carta ancora più “vecchia scuola” del figlio, nella pratica più o meno indistinguibile. Un paio di battute buone le dice, ma niente di più. Un cameo tanto doveroso quanto fiacco.
In definitiva questo Shaft sembra essere la crasi tra una sit-com del pomeriggio di Italia 1 e un poliziesco della seconda serata di Italia 1. Del tutto piatto sul piano registico (persino le sparatorie non hanno alcun dinamismo), inconsistente negli snodi di trama, incapace di creare alcuna tensione, interessato solo a strappare una risata facile. In qualche modo si salva dal completo disastro: le musiche non sono male, ma soprattutto nell’insieme intrattiene a dovere. A patto di non chiedere niente di più di uno scanzonato intrattenimento.
Alessio Arbustini
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