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Dolemite Is My Name: la nascita di Dolemite e il ritorno di Eddie Murphy

Uno dei lati positivi dei “disprezzatissimi” b-movies è sempre stato quello di dare voce a un target preciso di persone, cosicché al giorno d’oggi alcune delle pellicole all’epoca più demonizzate dai critici cinematografici sono diventate un vero e proprio “must” sia per gli studiosi di sottoculture che per i cinefili più esperti; quindi, mentre nell’Italia degli anni ’70 i benpensanti scagliavano anatemi sugli spaghetti western e sulle commedie sexy con Alvaro Vitali ed Edwige Fennech, in America spopolava il genere della blaxploitation, la cui punta di diamante fu Dolemite, del 1975.

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Shaft, la recensione

Samuel L. Jackson torna a vestire i panni di John Shaft. No, non l’icona della blaxploitation cui  Richard Roundtree diede il volto nei primi anni ’70: suo figlio. Anch’egli chiamato John Shaft. Così come il terzo della dinastia, interpretato da Jessie T. Usher. Tutti e tre John Shaft. Se le omonimie vi turbano, vedetela così: dei cinque film che oggi compongono la saga, tre s’intitolano Shaft. Quando si dice la coerenza.

John Shaft Junior (Jesse Usher), JJ per gli amici, è un analista dell’FBI. Non vede suo padre da quando era piccolo. A parte gli imbarazzanti regali di compleanno (preservativi e riviste porno), non ha contatti con lui. Le cose cambieranno quando JJ si ritroverà a indagare sulla morte del proprio amico più caro. Osteggiato dal diretto superiore dell’FBI e consapevole di non potersela cavare da solo contro la mala locale, JJ chiede aiuto al papà (Samuel L. Jackson), ora detective privato. Prende così avvio il più classico dei buddy movie.

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