Snowpiercer, la recensione
Il post-apocalittico al cinema ci è stato proposto davvero in tutte le salse e sembra essere uno degli scenari caratteristici e preferiti ogni qual volta si tenti di giocare la carta del film fantascientifico; ne sono esempi recenti Olblivion con Tom Cruise, After Earth con Will Smith e lo spagnolo The Last Days dei fratelli Pastor.
Anche il coreano Joon-ho Bong, per il suo esordio americano, ha deciso di affidarsi a scenari che la fantascienza la pongono come esito di una catastrofe, ma riesce a trovare una chiave assolutamente originale e molto diversa da tutto quello che fino ad oggi era stato fatto.
Snowpiercer nasce come trasposizione di Transperceneige, una graphic novel francese scritta da Jacques Lob e Benjamin Legrand e disegnata da Jean-Marc Rochette il cui primo capitolo risale al 1984. Joon-ho Bong, che si occupa anche della sceneggiatura insieme a Kelly Masterson, prende ispirazione dalla trilogia fumettistica molto alla lontana, tenendo l’incipit e modificandone personaggi e accadimenti così da creare quasi una storia parallela.
Snowpiercer ci racconta la Terra del 2031, sconvolta da una seconda Era Glaciale che ha spazzato via ogni forma di vita, ad accezione di poche centinaia di sopravvissuti che vivono su un treno che compie da 17 anni il giro del globo senza fermarsi mai. Il treno, comandato dal suo creatore, il magnate dell’industria Wilford (Ed Harris), è l’unico posto caldo in cui è possibile vivere e il suo lungo incastro di vagoni è rigidamente strutturato in classi, che riflettono la divisione in classi sociali che vigeva nel mondo. In testa c’è il capotreno Wilford e tutta una serie di ricchi e benestanti che possono godere di tutti i comfort, in coda ci sono i più poveri, costretti a dormire ammassati e a nutrirsi di disgustose barrette gelatinose di proteine. All’ennesimo atto di discriminazione a cui i passeggeri della coda sono soggetti, la cellula di ribelli che già da tempo stava escogitando un piano, decide di attivarsi. Con a capo il tenace Curtis (Chris Evans) e il saggio Gillian (John Hurt), un manipolo di ribelli decide di percorrere tutti i vagoni del treno con l’aiuto dello scassinatore Namgoong Minsoo (Kang-ho Song) così da conquistare la locomotiva e ribaltare le sorti sociali della vettura.
Joon-ho Bong, con un budget relativamente basso di 40 milioni di dollari circa, realizza la sua personale visione del Mondo dopo la catastrofe. In primis si nota una palese voglia di far satira sull’umanità così come la conosciamo, fedelmente riprodotta in tutte le ingiustizie sociali nella divisione in classi che percorre l’intero treno. Non è certo una novità questa, così come è una costante inevitabile raccontare la vicenda dal punto di vista dei “poveracci”, che di fatto sono le vittime, gli agnelli nel tritacarne dei lupi che tutto controllano e hanno nelle proprie fauci le sorti dell’umanità. La storia di Snowpiercer, per questi motivi, si sviluppa nel più classico dei racconti che propongono uno scenario futuristico distopico, con il villain appartenete alla élite sociale e l’eroe di estrazione popolare a cui è affidato il compito di liberare l’umanità dall’oppressione.
Ma la novità di Snowpiercer risiede innanzitutto nella mono-location che è il treno e poi nella struttura a “livelli”, o “classi”, che ne fa una progressione dell’azione assimilabile quasi a quella di un videogame. Grazie anche alla fotografia dark e “glaciale” di Kyung-pyo Hong e alle particolarissime scenografie di Beata Brendtnerovà, Snowpiercer ha una fortissima identità visiva che sfrutta in pieno l’anomala location. Ogni settore del treno è ben caratterizzato per aderire alle peculiarità di classe, con i “bassifondi” che somigliano ai rifugi per senzatetto e gli scompartimenti vicini alla locomotiva che sono forniti di ristoranti alla moda, discoteche, saune e coffe shop. Non manca perfino il vagone scuola, dove vengono impartiti anomali insegnamenti classisti e studiata la storia contemporanea, in un clima straniante senza tempo che somiglia tantissimo a quello che si respira nella città immaginaria di Rapture nel videogame Bioshock. L’ascesa di Curtis e compagni è irta di pericoli e fa pensare proprio alla divisione a livelli di un videogioco, con prove di pericolo crescente e boss da sconfiggere, con il momento di maggiore follia visiva e strutturale che è la “battaglia” nella galleria contro gli incappucciati.
Joon-ho Bong ci tiene a cospargere in tutto il film una vena di ironia grottesca che ricorda molto il suo film ad oggi più commerciale, il monster movie The Host, dal quale reclama anche due interpreti, Kang-ho Song e Ko Asung. Se nel film con il mostro anfibio c’era però uno squilibrio tra serio e faceto, in Snowpiercer le due anime convivono con maggiore armonia e ad alcuni momenti drammatici di grande intensità se ne alternano altri più leggeri, con tocchi di grottesco che si incanalano soprattutto nel personaggio interpretato da Tilda Swinton, il viscido vicecomandante del treno.
Ovviamente Snowpiercer non è privo di difetti, anche se si tiene su livelli qualitativi molto alti e sopra la media del genere a cui appartiene. Si nota qualche lungaggine seminata qua e la, soprattutto nella seconda parte, con dialoghi che non aggiungono troppo alla storia e personaggi – come quello interpretato da Jamie Bell – che servono solo a fare massa pur percependone un maggior rilievo nella vicenda. Anche la chiusura lascia un po’ l’amaro in bocca perché se da una parte è geniale nel suo essere anticonformista, per molti aspetti è eccessivamente frettolosa, sottolineando qualche squilibrio di sceneggiatura.
Snowpiercer è dunque un film notevole, uno sguardo originale nell’abusato panorama del film post-apocalittico con una bella gestione della tematica sociale distopica.
Il film, che era stato presentato fuori concorso all’edizione 2013 del Festival Internazionale del Film di Roma, è distribuito dal 27 febbraio 2014 dalla Koch Media nella versione uncut voluta dal regista.
Roberto Giacomelli
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