Soldado, la recensione
Per parlare di Soldado (2018), che senza mezzi termini è uno dei migliori film dell’anno, è opportuno fare una premessa sul regista, l’italiano Stefano Sollima. Due sono le cose che saltano subito agli occhi. Primo. Sollima, figlio d’arte (suo padre Sergio diresse alcune pietre miliari del western e del poliziesco italiano negli anni Sessanta e Settanta), è dotato del tocco di Re Mida, cioè su qualsiasi film o serie-tv metta la mano, la trasforma in oro: i grandi noir italiani degli ultimi anni, Romanzo criminale, Gomorra e Suburra, hanno conosciuto sia una versione cinematografica sia una televisiva, e il prodotto più riuscito, più spettacolare e di maggior successo è sempre stato in tutti e tre i casi quello diretto da Sollima, e non può essere un caso. Secondo. Stefano Sollima è un motivo di orgoglio per il cinema italiano, essendo uno dei pochi registi del nostro Paese in grado di conquistare l’America dirigendo un film negli States con una grossa produzione alle spalle; in tempi recenti, i registi riusciti in una simile impresa si contano sulle dita di una mano – pensiamo a Gabriele Muccino con La ricerca della felicità e Sette anime e Luca Guadagnino con Suspiria.
Soldado – il cui titolo originale americano è Sicario: Day of the Soldado – è l’attesissimo sequel del noir/action Sicario (2015) del canadese Denis Villeneuve, e si pone come naturale prosecuzione del primo. Anzi, va oltre: perché se già Villeneuve, specializzato in kolossal (Arrival, Blade Runner 2049), aveva creato un prodotto spettacolare e di ampio respiro, Sollima – specializzato in film d’azione e di analisi del mondo criminale – alza ulteriormente l’asticella.
Scompare il personaggio di Emily Blunt, protagonista di Sicario, e diventa protagonista assoluto un gigantesco Benicio Del Toro – Alejandro, il personaggio più interessante e complesso della saga – insieme a un altrettanto granitico Josh Brolin (dunque, si ricompone parte del cast precedente, compreso Jeffrey Donovan nei panni dell’agente Steve Forsing). Soldado vede inoltre un salto di qualità nelle scene d’azione, che crescono quantitativamente e qualitativamente, ma pure nel ritmo e nell’enfasi spettacolare, grazie anche a un montaggio visivo e sonoro serratissimo.
L’autore di soggetto e sceneggiatura è Taylor Sheridan, che aveva già scritto Sicario ma anche Hell or High Water e I segreti di Wind River (una sorta di trilogia della Frontiera contemporanea): il copione sembra scritto ad hoc per Sollima, visto che la storia narrata, ma anche vari sotto-temi più specifici, rientrano nei canoni del regista italiano. Dopo aver raccontato la malavita romana di ieri e di oggi con Romanzo criminale – La serie e Suburra, la camorra contemporanea con Gomorra – La serie e il lato più sporco della polizia italiana con ACAB, disegna ora un nuovo universo criminale, cioè i cartelli della droga messicani, la lotta al narcotraffico e la “guerra di Frontiera” fra Stati Uniti e Messico nella tratta di esseri umani.
Così come in Sicario, scompare quella divisione manichea fra buoni e cattivi che c’era per esempio nell’ottimo Sotto il segno del pericolo di Phillip Noyce: qua non c’è un eroe paladino del bene come era Harrison Ford, ma il misterioso e inquietante Alejandro. Lo avevamo lasciato scoprendo essere un ex sicario del cartello di Medellin al quale un boss rivale ha sterminato la famiglia, al servizio del governo americano e di chiunque possa soddisfare la sua sete di vendetta. Quindi, tutt’altro che un eroe – nel finale di Sicario lo vediamo addirittura uccidere la famiglia del suo rivale, prima di giustiziarlo – a cui si affianca un altro anti-eroe, l’agente della CIA Matt Graver (Josh Brolin), pronto con il suo gruppo d’azione (e protetto dall’alto) a compiere ogni nefandezza possibile pur di stroncare o ridurre il narcotraffico.
La vicenda narrata in Soldado è ancora più complessa rispetto a quanto visto nel film di Villeneuve, poiché al traffico di droga si affiancano i temi del terrorismo e del traffico di esseri umani, anzi sono proprio questi a dare il via alla storia. Il governo americano, dopo due attentati kamikaze alla Frontiera e in un supermarket di Kansas City, capisce che i cartelli della droga stanno introducendo negli Stati Uniti anche dei terroristi. Graver viene quindi incaricato dal Segretario della Difesa (Matthew Modine) di porre fine con ogni mezzo, anche sporcandosi, alla nuova minaccia. Per farlo, richiama in azione Alejandro, e la task-force organizza un piano diabolico: prima uccide un avvocato del cartello di Matamoros facendo ricadere la colpa sul cartello del boss Carlos Reyes, poi rapisce la figlia di Reyes, Isabel (Isabela Moner), per scatenare una faida interna e farli eliminare l’uno con l’altro. Mentre stanno conducendo la bambina in territorio messicano, il convoglio viene però attaccato da un gruppo di poliziotti messicani corrotti che mandano a monte l’operazione: Graver coi suoi uomini rientra negli Stati Uniti, mentre Alejandro recupera l’ostaggio. Isabel è divenuta però ormai un testimone scomodo, e dall’alto arriva l’ordine di eliminare sia lei sia Alejandro. Nel frattempo, assistiamo alla formazione criminale di un giovane gringo, incaricato prima di contrabbandare i clandestini e poi di eliminare Alejandro, nel frattempo catturato dai narcos.
Come si evince dalla trama, Soldado ha dunque molta carne al fuoco, ma la regia granitica di Sollima e una sceneggiatura scritta con accuratezza nei minimi dettagli consentono la creazione di un film davvero mastodontico, tanto nelle scene d’azione quanto nel ritmo e nella costruzione dei personaggi. L’inizio sembra quasi un film di James Bond, visto che siamo trasportati diegeticamente in varie parti del mondo, dalla Frontiera messicana a Kansas City, dalla Somalia a Gibuti fino alla Colombia, poi ci si concentra sul punto nevralgico dell’azione, il confine messicano. Sollima fa capire subito di che pasta è fatto – se mai ce ne fosse bisogno – con l’esplosione, tristemente attuale, di tre kamikaze in un supermarket americano, tutto filmato in piano-sequenza. Perché nel cinema di Stefano Sollima stile e contenuto vanno di pari passo, è un cinema che non conosce edulcorazioni e al contempo possiede una tecnica sopraffina.
Campi lunghi, inquadrature dall’alto su strade e basi aeree, sparatorie girate e montate in modo serrato, voli di elicotteri in stile Apocalypse Now, un gusto particolare per inquadrature raffinate e di ampio respiro, e soprattutto la scena-regina del film, cioè l’attacco al convoglio blindato in mezzo al deserto, da vedere e rivedere. Gigantesca, girata quasi fosse un post-atomico in stile Mad Max: Fury Road, è preceduta da una costruzione della suspense la quale fa presagire che sta per accadere qualcosa: e quel qualcosa arriva, tanto improvviso quanto violento, una raffica di mitragliatrice che apre un lungo e fragoroso conflitto a fuoco, fra mitra e missili in campo lungo che fanno saltare i blindati (verrebbe da non crederci che è girata da un regista italiano); e quando sembra che sia tutto finito, ecco che la regia ci sorprende e fa proseguire la sparatoria. Oltre a questa scena da puro kolossal, sono impagabili l’attentato all’avvocato del boss, crivellato di colpi da Del Toro, l’esplosivo rapimento di Isabel e l’attacco della task-force di Graver ai trafficanti di droga.
Ma anche quando non c’è azione vera e propria, si respira un senso di spettacolo e di emozione difficile da trovare al cinema oggi, per lo meno in uno stato così puro. Soldado è un film profondamente virile, non c’è più posto per le riflessioni di Emily Blunt su ciò che è lecito e ciò che non lo è: la guerra ai narcos è un affare sporco, Alejandro è un bastardo quanto loro, e Graver non lo è da meno, anche se dimostrerà cuore nel salvare la bambina. Degna di nota è anche la sotto-trama relativa all’educazione criminale del ragazzo – anche in Sicario c’era una vicenda parallela, quella del poliziotto corrotto e della sua famiglia: e pure in Soldado la storia assume un valore importante sia di per sé, sia per l’evoluzione della trama, con il giovane istruito a uccidere (è lui il soldato del titolo, o forse Del Toro, o forse entrambi), in una serie di scene che ricordano abbastanza momenti simili della serie Gomorra. Perché Sollima persegue una propria poetica cinematografica precisa, intesa in senso sia narrativo sia stilistico, senza conformarsi a Hollywood: violenza, azione, nichilismo, rappresentazione di un mondo senza speranza che si estende dai piccoli delinquenti ai grandi narcotrafficanti e agli sporchi affari di Stato; ma non è un semplice regista d’azione, perché nei suoi film l’azione e la violenza non sono mai gratuite, bensì costruite in macro-sequenze attorno a cui ruota una storia solidissima.
A differenza di ACAB, Suburra e Romanzo criminale – La serie, qua la colonna sonora è meno invasiva, è più un sottofondo ritmato nelle sequenze d’azione e cupo nelle scene più drammatiche. Rispetto a Sicario, notiamo un utilizzo più marcato della fotografia, con colori più saturi e contorni più contrastati, che mettono in risalto i magnifici paesaggi desertici e il rosso del sangue.
Davide Comotti
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