Talk to Me, la recensione

Sono passati due anni da quando Mia ha perso sua madre, in circostanze che non le risultano ancora molto chiare. Adesso vive da sola con suo padre, con il quale ha un rapporto conflittuale, e proprio per questo viene spesso ospitata a casa della sua migliore amica. Quella di Jade, ormai, è un po’ come una seconda famiglia per Mia tanto che la ragazza è riuscita a stringere un discreto rapporto sia con la madre della sua amica che, soprattutto, con Riley, il fratellino di Jade. Una sera come tante, fra una chiacchiera frivola e l’altra, le due ragazze finiscono per parlare di quella che sembra essere diventata la nuova moda dei social network, almeno fra i loro amici, ovvero un gioco decisamente elettrizzante che riesce a sballare come la migliore di tutte le droghe: si chiama Talk to Me ed è una sorta di seduta spiritica che garantisce un contatto immediato con una presenza ultraterrena.

Quando Jade si reca ad una festa, portandosi dietro anche Mia e il fratellino Riley, in breve l’occasione diventa ghiotta affinché tutti i partecipanti possano divertirsi con il macabro gioco del momento. Joss, il proprietario di casa, esibisce l’unico strumento indispensabile per giocare: una misteriosa mano di ceramica che, stringendola e pronunciando la parola “parlami”, consente il legame diretto con un defunto. L’importante è evitare che la trance si protragga per più di novanta secondi. Mia, un po’ per farsi accettare dal gruppo e un po’ per divertirsi, si prenota per il primo turno di gioco ma dopo aver pronunciato la parola “parlami” entra in contatto con qualcuno, o meglio qualcosa, che le cambierà per sempre la vita.

Nel 1958 usciva il celebre romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa Il Gattopardo, un romanzo storico che conteneva al suo interno una massima che nel tempo, oltre ad essere eletta come frase simbolo dell’opera, è diventata un autentico specchio di tutta la cultura socio-politica italiana. Tancredi, nipote prediletto del principe Fabrizio Salina, affermava infatti che «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi!».

Una frase tanto enigmatica quanto esplicativa, sicuramente applicabile alla situazione politica e sociale del nostro Paese (di ieri e di oggi) ma non per questo esclusiva. Potremmo facilmente applicare la massima di Tancredi, infatti, anche all’attuale scenario del cinema horror di carattere internazionale, un cinema che – come è giusto e naturale che sia – negli ultimissimi anni si sta facendo portavoce di nuovi e interessantissimi sguardi autoriali. Un cinema assolutamente giovane che sa come guardare agli usi e ai costumi della società moderna per inventare o riscrivere un nuovo codice relativo ai meccanismi che generano ansia e paura. Un cinema che ostenta innovazione, anche con un pizzico di arroganza, ma che, stringi e stringi, non fa altro che riproporre e cucire insieme trame e situazioni che in passato hanno funzionato e che hanno contribuito a segnare la Storia di questo genere.

L’horror moderno sembra aver voltato le spalle a quel respiro mainstream che tanto andava forte una ventina d’anni fa, cerca insistentemente il gemellaggio con i tempi e la messa in scena di certo cinema indipendente d’autore e appare sicuramente più interessato alla metafora piuttosto che al discorso diretto. Una rivoluzione che, tuttavia, sembra esistere solo in superficie perché poi, appunto, all’atto pratico non si fa altro che cercare di riproporre all’infinito schemi e stereotipi già ampiamente collaudati.

Andando incontro ad un successo di pubblico decisamente inaspettato (solo negli Stati Uniti ha incassato 44,5 milioni di dollari, di cui 10 milioni nel solo weekend d’apertura, a fronte di un budget contenuto di circa 4,5 milioni) generato da un passaparola che lo ha premiato a testa alta, esce adesso anche nelle nostre sale Talk to Me, suggestivo e intelligente horror australiano che ha potuto godere di una distribuzione in sala per mano dell’ormai inarrestabile e modaiola A24. Etichetta che, come sappiamo, un po’ come il Re Mida riesce a trasformare in oro tutto ciò che tocca.

Stando ad un pregiudizio dal quale – purtroppo – difficilmente riusciamo a separarci, Talk to Me non si presentava troppo bene. Da subito, infatti, è stato venduto come l’esordio alla regia dei fratelli Philippou (Danny e Michael), due noti youtuber australiani conosciuti anche con lo pseudonimo RackaRacka.

Originari di Adelaide, i due iniziano la loro “carriera” da molto giovani realizzando cortometraggi tra l’horror e la commedia (il primo successo lo ottengono con un videoclip virale intitolato Harry Potter vs. Star Wars) che diffondono prima su facebook e poi su youtube. In breve diventano due prodigi del web tanto da essere coinvolti, nel 2014, all’interno della produzione dell’ormai cult Babadook diretto da Jennifer Kent.

Arrivano così nel 2022 a scrivere, dirigere e produrre Talk to Me, un horror che su carta si presenta come l’ennesima ghost story a base di sedute spiritiche e possessioni demoniache. Roba vista e stravista, per di più messa in piedi e diretta da due sbarbatelli che hanno ottenuto credibilità solo per avere numeri interessanti sui loro canali social.

Era abbastanza lecito, dunque, guardare con sospetto l’intera operazione.

E invece, con un colpo di coda assolutamente inaspettato, Talk to Me si rivela un film horror di grande qualità: pensato con intelligenza, confezionato con estremo gusto ma, soprattutto, diretto da Danny e Michael Philippou con una personalità e una sicurezza oltremodo invidiabile.

Certo, è il caso di tornare ancora una volta a quella massima de Il Gattopardo con la quale abbiamo aperto questa riflessione, perché Talk to Me è un horror che effettivamente non inventa nulla di nuovo. È proprio quello che prometteva di essere sin dal principio, ovvero una ghost story che ci ricorda quanto possono essere infimi e cattivi i fantasmi, soprattutto se disturbati con escamotage dalla dubbia provenienza. L’unica variante introdotta – e che si prepara ad entrare a gamba tesa all’interno di uno specifico immaginario – è quella di utilizzare un’inquietante mano di ceramica ricoperta da scritte e incisioni al posto dell’ormai obsoleta e inflazionata tavoletta ouija.

Dunque, Talk to Me si fa testimone diretto di quel detto che prova a convincerci che, a volte, non è importate quello che si dice bensì come lo si dice. E i fratelli Philippou, quel poco che hanno da dire, lo dicono incredibilmente bene.

Nella forma, o meglio ancora nel look con il quale si presenta al pubblico, Talk to Me si rifà a tutto quel cinema horror moderno che, negli ultimissimi anni, guarda con una certa spocchia il cinema di genere. Un film dal respiro fortemente autoriale, che preferisce una messa in scena minimale e dedica molto tempo a raccontare i suoi personaggi e i drammi da cui sono affetti.

Guardando Talk to Me potrebbe tornare in mente It follows di David Robert Mitchell (che è ormai un altro cult del moderno cinema dell’orrore), per quella squisita tendenza a mantenere costante il senso d’angoscia e il clima luttuoso, unito alla voglia di rendere l’orrore una metafora di altro. Se nel film di Mitchell l’entità malvagia poteva facilmente essere letta come le paure di molti giovani legate alla sfera sessuale (che siano le ansie da prestazione così come le malattie veneree), in Talk to Me il mondo ultraterreno raggiungibile attraverso quella sinistra mano tesa è una chiara metafora dell’esigenza della protagonista di superare un lutto. Ma, al tempo stesso, il modo in cui i fratelli Philippou ci raccontano queste “sedute spiritiche”, rigorosamente legate al mondo giovanile e alla diffusione sul web mediante social, non può che strizzare l’occhio a tutto quell’universo legato alle challenge e che si è fatto spesso sipario di spiacevoli fatti di cronaca.

Oltre a It follows, tuttavia, Talk to Me può rievocare anche il più recente Smile diretto da Parker Finn. Un collegamento più ideologico che tematico e che sorge proprio in prossimità di questa tendenza a voler innalzare verso una certa autorialità un plot visto e rivisto miliardi di volte che, nelle mani della persona sbagliata, sarebbe potuto essere davvero l’ennesimo prodotto senz’anima destinato al dimenticatoio.

Ma a differenza del film di Parker Finn, e qui la suddetta bravura dei fratelli Philippou, Talk to Me è un horror che sembra conoscere molto bene i meccanismi legati all’angoscia, all’ansia e alla paura. E quindi gioca onestamente, in modo oltretutto coraggioso, lasciandosi alle spalle qualsiasi forma di jump-scare. Durante la visione di Talk to Me si respira un pericolo costante, si ha sempre la sensazione di non essere al sicuro e di avere una pesantissima angoscia adagiata sullo stomaco, eppure nulla viene mai ottenuto attraverso sterili e sleali trick sonori.

I fratelli Philippou sanno come si veicola la paura, sanno infondere disagio in chi guarda, ma soprattutto sanno molto bene che in certi film meno spiegazioni vengono date e meglio è. E questo, infatti, è un altro punto a vantaggio della pellicola che riesce a mantenere alto il mistero legato a quella sinistra mano che si fa veicolo tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Talk to Me non ci prova nemmeno a dare una spiegazione (ir)razionale al tutto, abbozza una teoria ma che suona più come una supercazzola da bar, va dritto per la sua strada e si concentra solo sulle conseguenze dell’orrore. Non sulle cause. E quindi, così facendo, i due registi ammantano la loro opera prima d’una normalità che è inquietante ancor più dei fantasmi. Raccontando un gruppo di giovani che gioca con l’ultraterreno, utilizzando questo come fosse una droga o un superalcolico qualsiasi, con l’obiettivo di ottenere più visualizzazioni possibili sui profili social ma senza la minima curiosità di conoscere da dove arriva quella mano e che storia ha alle spalle (un po’ come la vhs maledetta di The Ring, prima dell’arrivo dei micidiali spiegoni del secondo atto).

A differenza di molti horror appartenenti all’epoca moderna, spesso devoti allo spavento facile e a suggerire anziché mostrare, Talk to Me avanza anche una certa spavalderia nella messa in scena della violenza, senza porsi minimamente il problema di cosa possa essere ben accolto da quel pubblico moderno che certe cattiverie sul grande schermo se le è un po’ dimenticate. Non ci sono eccessi grandguignoleschi nel film dei Philippou, mettiamolo subito in chiaro. Ma non ce n’era nemmeno bisogno, perché l’obiettivo dei due esordienti è chiaramente quello di destabilizzare e angosciare e non quello di disgustare. Però, giunto al momento giusto, il film non si fa alcuno scrupolo e va dritto al sodo senza lesinare in scene capaci di mettere a dura prova gli stomaci più deboli, sia per una certa scorrettezza che per la violenza esibita.

Volendo, ma solo se si approcciasse il film con una certa superficialità, si potrebbe accusare Talk to Me di avere una sceneggiatura non sempre inattaccabile. Il film, infatti, ha un primo atto molto intrigante e un finale (da cui probabilmente è nata l’intera idea del film) che vale da solo il prezzo del biglietto. Tutto il corpo centrale dell’opera, invece, potrebbe apparire come una sorta di percorso al buio, dove si cammina senza conoscere bene la direzione. Potrebbe dar l’idea di una scrittura che arranca verso un preciso punto d’arrivo, che passa in modo confuso da un focus all’altro gettando di continuo carne sul fuoco. Eppure, guardandola dalla prospettiva giusta, la sceneggiatura di Talk to Me è forse uno degli aspetti più interessanti di tutta l’operazione. Perché, sposando al 100% il punto di vista di Mia e in vista di una storyline sovrannaturale che non è mai davvero spiegata, il film in questione riesce davvero a comunicare quel senso opprimente di spaesamento continuo che vive la protagonista. Lei non ha la più pallida idea di quello che le sta accadendo e noi siamo esattamente con lei, al suo fianco, e non in una posizione di superiorità conoscitiva.

In definitiva, Talk to Me è un horror che funziona, ed anche bene, non aggiunge nulla di nuovo al discorso relativo a fantasmi e possessioni ma ci ricorda come sono fatti i film horror che per andare a segno non necessitano di noiosi e puerili giochetti sonori. I due youtubers, nonostante la giovane età, confezionano un horror adulto e maturo.

Inevitabilmente, visto il successo inaspettato di cui si parlava sopra, Talk to Me è già stato trasformato in un franchise e i fratelli Philippou sono stati ingaggiati per lavorare su altri due capitoli: un sequel e un prequel. Passi pure il seguito, va bene, ma incrociamo le dita e speriamo che non venga fatto crollare il castello di carta con improbabili spiegoni che potrebbero giungerci dal prequel.

Giuliano Giacomelli

PRO CONTRO
  • Un horror condotto con intelligenza, assolutamente maturo, che ci ricorda come sono fatti i film che non necessitano di jump-scare per regalare qualche brivido.
  • Danny e Michael Philippou hanno un gusto per la messa in scena assolutamente notevole.
  • La mano di ceramica che unisce il mondo dei vivi con quello dei morti ha un suo fascino e, siamo sicuri, resterà in un certo immaginario.
  • Un finale notevole e, in generale, una buonissima gestione dell’elemento misterioso.
  • All’atto pratico, non aggiunge nulla di veramente nuovo al filone.
  • Se approcciato con superficialità, Talk to Me potrebbe rivelare una scrittura che mostra il fianco nella parte centrale del film.
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