Babadook, la recensione

Amelia, vedova del marito, morto il giorno della nascita del figlio Samuel, si ritrova quotidianamente a lottare contro l’immaginazione iperattiva del piccolo e la sua crescente fobia dei mostri delle favole. Una sera, i due trovano un elegante volume rilegato intitolato “Mister Babadook”, colmo di illustrazioni e attraversato da una filastrocca sul misterioso Babadook, un buffo personaggio con un cappello a cilindro e lunghe dita nerastre. Continuando la lettura, la filastrocca diventa progressivamente più inquietante e rivela le reali intenzioni crudeli del personaggio, il quale si presenta ai propri “amici” solo dopo averli spaventati a morte.

Samuel, terrorizzato, si convince che il Babadook è reale e comincia a chiudersi in un mondo tutto suo fatto di armi rudimentali per combattere chiunque tenterà di ferire la madre.
Sull’orlo del crollo mentale e fisico, Amelia si ritrova costretta a dover cercare di affrontare le paure del figlio, ma presto si renderà conto che una presenza oscura sta tentando di impossessarsi delle loro vite, una presenza spaventosamente simile al personaggio del libro.

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Basato sul cortometraggio Monster di Jennifer Kent, qui alla sua prima prova alla regia di un lungometraggio, e finanziato tramite il crowd-founding di Kickstarter, Babadook si presenta come un’intrigante e originale incursione del cinema australiano nel panorama horror.
Palesemente ispirato ai bianchi e neri della Germania anni ’40 e rinvigorito da un orgoglio contemporaneo mai eccessivamente digitale, il mondo generato dalla regista è, fin dalle prime sequenze, una gioia per gli occhi.

Acrobazie fotografiche a parte, la vera felicità nell’osservare l’estetismo onirico della pellicola è racchiusa in un senso per quel cinema homemade da cui l’idea originale stessa sembra aver preso origine. Il Babadook del titolo nasce in un gioco d’ombre, di arguzia e psicologia; la realtà in cui viene presentato è frutto di un parallelismo tranquillamente emulabile da un attacco di depressione improvviso durante un pigro pomeriggio… e immediatamente si ritraggano coloro che cercano sangue e salti sulla poltrona, Babadook è una fiaba nera elegante, elegantissima, raffinata e soprattutto consapevole di dover aderire alle regole di un mondo non del tutto uguale al nostro, dove è possibile parlare di attualità, di dvd, smartphone, palestre e computer, ma dove il televisore è fermo agli anni ’70, le uniformi mantengono il color confetto e le macchine sembrano bloccate in un antico ciclo di produzione.

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L’abitazione in cui si svolge l’intera trama è scricchiolante e desaturata, come una chiesa in procinto di essere demolita, tali sono la freddezza e il desiderio di calore che suscitano in noi, visitatori casuali, e restituisce alla perfezione il panorama desolante e inquieto di cui si nutrono i due protagonisti.

Essie Davis dona una fragilità inconsueta ad Amelia; sempre e continuamente sull’orlo di una crisi isterica bloccata nel bisogno di doversi percepire donna stabile e madre corretta.
Noah Wiseman, però, ruba la scena a tutti. Il suo Sammy aderisce perfettamente allo stereotipo di bambino in “zona horror”; costantemente intento a urlare, rompere oggetti, lamentarsi, piangere e tentare follie irrazionali.

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Ma, forse anche per la splendida scrittura di Jennifer Kent, parte della bellezza inaspettata di Babadook fuoriesce dalla sua interpretazione; il bisogno di distruzione del piccolo sperimenta il desiderio di catarsi e l’eterno amore per una madre che, anche se ancora non ha imparato a ricambiarlo, rappresenta per lui l’unica fonte di paradiso in un mondo oscuro e popolato da mostri invisibili.
La dimensione fiabesca da cui attinge l’aspetto visivo contamina alla perfezione l’impianto narrativo; questo è, essenzialmente, il peggior incubo mai vissuto da bambini e l’analisi della regista compiuta in questa visione distorta si riproduce esattamente nei due comprimari.
Da un lato la mente adulta, che tende a nascondere tutto, a decidere quando è arrivato il momento di andare a dormire, che non accetta minimamente l’irrazionalità infantile, e dall’altro l’occhio di un bambino che assorbe le ombre del mondo tramite l’amore e la curiosità che prova, o vorrebbe provare, fagocitandole in una dimensione più modellabile e comprensibile per essere salvata.
Dove si nascondino i fatti reali nella trama, non ci è dato saperlo. Seppur rivisitabili in chiave psicologica, Babadook è splendidamente condito da un sottile substrato di magia, come un leggero collante per mantenere assieme i due tremendi mondi della mente e dell’immaginazione, spesso volando a piena velocità in sequenze al limite del terrore senza mai donare l’impressione di prendere in giro il pubblico, e regalando, tuttavia, una dimensione straordinariamente plausibile e dal carico emotivo a tratti straziante.

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È solo una fiaba dopo tutto, ma una fiaba da tramandare, vuoi per il coraggio e la semplicità con cui sembra riesca a curare il tutto, vuoi perché ci sembra di essere testimoni di un gigantesco pop-up di un’ora e mezza, tanto simile a quello del film, quanto a quella bellezza terrificante che solo i nostri incubi più intimi possono generare.

Luca Malini

PRO CONTRO
  • Aspetto visivo interessante e voglioso di omaggiare il cinema espressionista.
  • Cast azzeccato con un bravissimo Noah Wiseman.
  • Profondo e ricco di sfumature psicologiche.
  • Se cercate un horror votato alla violenza e allo spavento, guardate altrove.
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Valutazione: 8.0/10 (su un totale di 1 voto)
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Valutazione: +3 (da 3 voti)
Babadook, la recensione, 8.0 out of 10 based on 1 rating

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