Killers of the Flower Moon, la recensione del nuovo film di Martin Scorsese

Da quando è stato presentato fuori concorso a Cannes lo scorso maggio, Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese ha collezionato molti più titoli che disquisiscono sulla sua durata di 3 ore e 26 minuti invece che sui temi e sulla qualità del film stesso. E questo è obiettivamente triste, se consideriamo il fatto che siamo di fronte a un grande film.

È vero, oggi c’è un problema con le durate dei film. La soglia dei 180 minuti sta ormai diventando la consuetudine lì dove, fino a qualche anno fa, era un’eccezione. Ci sono diverse scuole di pensiero attorno a questa estensione di durate, ma non è questa la sede in cui parlarne. Fatto sta che, se un film necessita o sa comunque sfruttare a suo vantaggio il lungo minutaggio, questa cosa non deve di certo rappresentare una colpa e diventa perfino un paradosso soffrirne, poi, in un mondo educato dalle piattaforme streaming nella pratica del binge-watching seriale.

Martin Scorsese è ormai un veterano delle durate mastodontiche: New York New York dura 162 minuti, L’ultima tentazione di Cristo 164 minuti, Casinò 178 minuti, Gangs of New York 167 minuti, The Aviator 170 minuti, The Wolf of Wall Street 180 minuti fino ad arrivate a The Irishman, che è fino ad oggi il suo lavoro più lungo con 209 minuti. Ma se è vero che, qua e là, a volte il buon Scorsese si è fatto sfuggire la mano, Killers of the Flower Moon è invece un’opera che trova coerenza proprio nella sua durata fiume: un film denso eppure narrativamente compatto che riesce, grazie anche al tempo che chiede allo spettatore, di approfondire adeguatamente tutti i personaggi e il susseguirsi degli eventi che porta in scena. Quindi erano necessari 206 minuti per Killers of the Flower Moon? Si, lo erano. E se vi lasciate catturare dalla storia, la durata percepita è di almeno la metà del tempo effettivo.

Chiuso il capitolo minutaggio, che sembra essere l’unica cosa a preoccupare gli spettatori ancora indecisi se andare al cinema o aspettare la visione casalinga, posso ribadire che Killers of the Flower Moon è un film davvero riuscito. Probabilmente il miglior Scorsese da almeno una decina d’anni a questa parte.

Ispirandosi liberamento al romanzo di David Grann Gli assassini della terra rossa, Killers of the Flower Moon ci trasporta in Oklahoma negli anni Venti del ‘900, precisamente nella contea Osage, dove una comunità di Nativi americani vive negli agi grazie al petrolio che scorre sotto il loro territorio. Ma le ricchezze di cui dispongono gli Osage fanno gola a più di qualcuno, così come i loro terreni e le loro concessioni petrolifere, e così molti Nativi muoiono in circostanze misteriose, spesso lasciando i loro beni ai bianchi con cui, nel frattempo, si sono imparentati. A gestire buona parte dei traffici e degli affari di Osage Country è William Hale, signorotto della zona che si è auto-proclamato “Re” della contea. Quando torna dal fronte Ernest, nipote di Hale, comincia subito a darsi da fare come può e lo zio gli consiglia di sposare la Nativa Mollie se vuole far fortuna con il minimo sforzo, perché è la figlia ancora nubile di una delle più facoltose famiglie Osage. Ma quando Ernest si innamora davvero di Mollie, i piani di zio William cominciano a far vacillare la moralità dell’uomo.

Martin Scorsese mette da parte i gangster e i criminali classici nell’immaginario collettivo, quelli che hanno reso celebre al pubblico il suo cinema, ma non abbandona del tutto l’esplorazione dell’universo malavitoso. Con un importante balzo indietro nel tempo di un secolo, il regista di Taxi Driver ci descrive i tentativi -non troppo leciti- di ascesa al potere dell’uomo bianco comune e lo fa costruendo una ideale lotta tra culture che azzera l’afflato politico per concentrarsi sui sentimenti primordiali dell’essere umano: la sete di potere, la paura e l’amore.

Con una lucidità graffiante, Killers of the Flower Moon è l’epitaffio sul mito dell’America, un’elegia sull’origine sanguinaria degli Stati Uniti che descrive il Nuovo Mondo come una terra eretta sulla violenza, l’avidità e il razzismo e sulla quale incombe il peso del denaro, come vero idolo da venerare e in nome del quale sfogare i più abietti impulsi.

Quella di Scorsese è una piccola odissea che si sviluppa nel corso di una decina d’anni e che racconta fondamentalmente proprio i meccanismi che si celano dietro le fondamenta del potere, quel potere che si costruisce grazie alla scaltrezza e l’illegalità e che porterà idealmente ai futuri “bravi ragazzi” e “lupi di Wall Street”.

Allo stesso tempo, però, il regista e il co-sceneggiatore Eric Roth ci tengono a sviluppare in maniera molto avvincente la storia d’amore tra Mollie Ernest che sono interpretati magnificamente da Lily Gladstone e Leonardo DiCaprio; un amore incerto, palesemente mosso dagli interessi e da un patto di tregua culturale sottinteso. Lei è dolce e allo stesso tempo autoritaria, spesso sulla difensiva quando viene approcciata dall’uomo bianco, lui è un ragazzotto ingenuo che si lascia manipolare dallo scaltro zio, che ha il volto sornione di Robert De Niro. Mollie ed Ernest, insieme, fanno una coppia davvero sui generis, lontani da qualsiasi stereotipo, che danno vita a una storia d’amore anomala che mai davvero ci appare come una vera storia d’amore. Eppure lei, ad un certo punto, mette se stessa e i suoi figli completamente nella mani di Ernest e lui, nonostante i magheggi a cui acconsente quasi senza coscienza delle conseguenze, prova un affetto sincero per quella donna. Quella rappresentata da Mollie ed Ernest – da Gladstone e DiCaprio – è una delle coppie più belle e strambe che si siano viste al cinema almeno dai tempi de “la bella e la bestia” de La forma dell’acqua, ricca di sfumature di scrittura e di finezze di interpretazione.

Attorno all’amore ruota poi la vicenda criminale, gli omicidi sempre più copiosi e sempre meno attenti a non lasciare prove, e si inserisce anche la Storia, con l’entrata in scena dell’appena nato Federal Bureau of Investigation, voluto proprio in quegli anni da J. Edgar Hoover sotto la presidenza di Calvin Coolidge. Curioso notare che il romanzo di Grann accolga proprio il punto di vista dell’FBI guidato dal ranger Tom White, mentre il film releghi questa porzione di storia a una storyline secondaria dando a Jesse Plemons, che interpreta White, pochissime scene.

Supportato da una bellissima fotografia di Rodrigo Prieto e da una colonna sonora molto ricercata, a cura di Robbie Robertson, che unisce le sonorità dell’Ovest con quelle dei Nativi, Killers of the Flower Moon è un bellissimo post-western che si distacca con forza dalla stanca omologazione di tanto cinema mainstream odierno ma, allo stesso tempo, non ha neanche il linguaggio del cinema classico. Quella di Scorsese è una magnifica opera cinematografica post-moderna che rappresenta per l’autore un’altra occasione per raccontare la Storia e la cultura del suo Paese in un obiettivo di magnifica distruzione dell’American Dream.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Un ritmo costante e avvincente che ben viene dosato nella densità della storia raccontata.
  • Lily Gladstone e Leonardo DiCaprio. Ma soprattutto Lily Gladstone!
  • Come fonde l’epica western con una storia di malavita e un’anomala love story.
  • I 206 minuti di durata, ma solo se avete seri problemi alla prostata.
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