House of Gucci, la recensione

Scrivere di House of Gucci non è affatto facile.

Si potrebbe liquidare il nuovo film di Ridley Scott attribuendogli colpevolmente tutti i macroscopici difetti che si porta dietro, ma serpeggia sempre e comunque il dubbio che quei “difetti” in realtà non siano tali e che l’epica famigliare della “casata” Gucci intessuta dal regista britannico sia una copertura per dar vita a una commedia satirica interessata a mettere alla berlina le idiosincrasie del potere. House of Gucci è, dunque, un melodramma dai risvolti crime riuscito particolarmente male oppure una critica al fulmicotone della corrosiva sete di potere raccontata come una soap-opera?

L’ “Io” che ha amato gran parte delle opere del regista di Alien e Blade Runner, difendendo a spada tratta anche quelle meno focalizzate, propenderebbe ovviamente verso la seconda ipotesi, ma ci sono troppi inciampi, tante soluzioni ambigue, più di un elemento che sembra palesemente sfuggito al controllo autoriale del regista che ci fa propendere più verso la prima soluzione.

Siamo nel 1978, la giovane Patrizia Reggiani, che lavora come contabile nella ditta di autotrasporti del padre, conosce casualmente ad una festa Maurizio, studente di giurisprudenza e rampollo della famiglia Gucci, tra i maggiori esponenti dell’ambiente italiano dell’alta moda. I due si innamorano e, nonostante la contrarietà di Rodolfo, padre di Maurizio, il ragazzo chiede a Patrizia di sposarlo. Passano gli anni, Maurizio, dopo un breve e ribelle periodo di lavoro nella ditta di famiglia di Patrizia, va ad occuparsi del marchio Gucci scontrandosi con suo cugino Paolo, stilista poco dotato che vorrebbe avere il controllo della ditta. Ma è Patrizia che sembra avere davvero le redini del marchio Gucci, o almeno così crede, fino all’inevitabile caduta che scaturirà nel sangue.

Tra i più emblematici e discussi casi di cronaca nera italiani degli anni ’90, l’omicidio Gucci è davvero marginale nel film di Ridley Scott che si ispira al romanzo/inchiesta di Sara Gary Forden House of Gucci. Una storia vera di moda, avidità, crimine. Il racconto intercetta la storia di Patrizia Reggiani e Maurizio Gucci molto alla larga, partendo dal loro primo incontro in un party e da lì innesca una fitta rete di intrighi famigliari, passione, tradimenti e giochi di potere che della verosimiglianza se ne infischiano abbastanza. Grazie a una meticolosa e ben riuscita ricostruzione temporale, viviamo insieme ai personaggi protagonisti la Milano da bere degli anni ’80, alcuni scorci di Firenze, Roma e Cortina, tutto rigorosamente contestualizzato dalle maggiori hit musicali italiane e internazionali, con quell’effetto juke box molto cheap.

Da queste premesse si dipanano una serie di eventi e personaggi che è impossibile prendere seriamente. E qui c’è l’enorme limite che mina la riuscita di tutto il film.

Con Tutti i soldi del mondo, avevamo già capito che l’universo Scott ha un’immagine dell’italiano molto stereotipata e americanizzata, cosa che – ahinoi – accade per la maggioranza delle persone che vivono in America e conoscono la nostra cultura attraverso i media e i film sulla mafia. In House of Gucci anche accade e gli italiani protagonisti del film sembrano usciti dalle parodie de Il Padrino, dalle estremizzazioni de I Soprano e dalle mostruosità partorite da Jersey Shore. Ma non è questo il problema perché capiamo subito dal contesto generale estremamente kitsch che la via dell’eccesso è la cifra stilistica del film. Il problema incorre nel momento in cui l’intero film diventa un oggetto schizofrenico che, in fin dei conti, non è ne carne ne pesce, ne commedia ne dramma, ma un prodotto completamente fuori fuoco in cui i personaggi fanno e dicono cose assurde, spesso stupide, ma con una serietà e rigorosità generale che li rende involontariamente comici.

Se la sceneggiatura di Becky Johnston e Roberto Bentivegna è sicuramente colpevole di questa collezione di scivoloni, a minare seriamente la riuscita del film sono le interpretazioni e – duole dirlo – la mancanza di una direzione attoriale. In House of Gucci, praticamente, ogni interprete fa quello che vuole senza alcuna parvenza di coerenza recitativa, come se non ci fosse stato alcuni briefing tra produzione e cast, nessun lavoro sul team attoriale, nessuno li avesse diretti. E così abbiamo il rigore maniacale e serioso di Adam Driver che dà vita a un Maurizio Gucci ingessato e impostato, come se stesse recitando in un film da notte degli Oscar, accompagnato da un altrettanto dignitosissima interpretazione di Jeremy Irons (il migliore del gruppo) che è suo padre, Rodolfo Gucci. A loro si contrappongono Lady Gaga, che passa da una caratterizzazione sanguigna e verace di Patrizia Reggiani che nei primi due atti fa simpatia, a una trasformazione in cattiva da cartone animato nell’ultimo atto che è solamente ridicola. Fino alla disastrosa e incomprensibile versione di Paolo Gucci incarnata da Jared Leto, irriconoscibile nel look, che si muove ciondolando come Jack Sparrow, parla in cantilena e rappresenta incomprensibilmente la spalla comica che nessuno aveva chiesto. In mezzo a tale frattura c’è anche Al Pacino, che sembra divertirsi un mondo a dar vita a un Aldo Gucci sopra le righe ma anche perfettamente bilanciato nel suo fare farsesco.

E così House of Gucci ci appare come un Frankenstein indefinito e indefinibile, una presa per il culo alle rovinose dinamiche del potere, ma che utilizza un linguaggio pessimo per comunicare questo messaggio. Una storia seria, serissima, nera come la pece, in cui delle persone sono morte sul serio, altre sono in carcere, altre ancora hanno visto la loro vita andare a rotoli ma il tutto è trattato come se si stesse raccontando una barzelletta a voce altissima. Di certo non ci si annoia a guardare House of Gucci, questo è poco ma sicuro, però questo eccesso di grottesco e questa mancanza di un reale focus tematico chiaro da quasi fastidio.

Diciamo che da Ridley Scott, che solo due mesi fa era in sala con il bellissimo e centratissimo The Last Duel, non ci saremmo aspettati un film di questo tipo e la sua mano, in effetti, non è neanche particolarmente visibile. È qui che sta la delusione maggiore di House of Gucci, l’improvvisa e inattesa uscita dalla comfort zone qualitativa a cui un grande Maestro del Cinema ci aveva abituato. Se ci si toglie dalla testa tutto questo e si accetta di assistere a una dramedy farsesca per la mastodontica durata di 157 minuti, ci si diverte pure.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • La ricostruzione storica scenografica e di costumi.
  • La colonna sonora da juke-box anni 70, 80 e 90.
  • Jared Leto, in parte Lady Gaga e la generale mancanza di una direzione degli attori.
  • Questo film non è ne carne ne pesce, non si capisce se dobbiamo ridere o compatire, è solo una gigantesca fiera del grottesco.
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