L’ultima luna di settembre, la recensione

Ormai molti anni fa, Tulgaa ha abbandonato le campagne della Mongolia per andare a vivere in città, alla ricerca di un futuro più concreto e agiato. Ma quello che ha trovato, tuttavia, è una dimensione grigia e un rapporto di coppia che non ha preso la piega sperata. Quando riceve una telefonata che lo avverte che il patrigno sta per morire, Tulgaa non può fare altro che tornare nelle steppe della Mongolia per accudire l’anziano negli ultimi giorni della sua vita.

Alla morte dell’uomo, consumati i funerali, Tulgaa decide di esaudire l’ultimo desiderio del patrigno: rimarrà nella iurta paterna fino al calare dell’ultima luna piena di settembre per terminare il lavoro di fienagione nei campi.

Per Tulgaa inizia così un lungo periodo di riconciliazione con la Natura, un periodo in cui deve necessariamente riabituarsi ai ritmi della campagna, alla solitudine e ai disagi offerti dal mondo naturale e incontaminato. Durante le sue lunghe giornate spese ad arare i campi, Tulgaa conosce Tuntuulei, un bambino di dieci anni che vive con i nonni e che lavora anche lui nei campi. Dopo alcuni piccoli attriti di partenza, i due imparano a conoscersi e ad affezionarsi l’un l’altro: Tulgaa proverà emozioni nuove, divenendo una vera e propria figura genitoriale nei confronti del piccolo, mentre Tuntuulei identificherà nell’uomo quella figura paterna che non ha mai avuto.

In questi ultimi anni, il cinema occidentale sta aprendo le porte a Paesi che, fino a qualche tempo fa, difficilmente riuscivano ad approdare nelle nostre sale. Parliamo di un cinema che rincorre e abbraccia forme narrative ed espressive differenti, che si fa portavoce di culture molto lontane dalla nostra, quindi un cinema che assume anche una valenza così antropologica che, ai nostri occhi, non può che impreziosire l’opera stessa.

È un cinema che non cerca necessariamente di ibridarsi con i canoni occidentali, né di aderire a modelli riconoscibili nel mondo e perciò facilmente esportabili, bensì un cinema onesto che affonda le proprie radici nelle emozioni più antiche e profonde, un cinema che intende parlare di esseri umani e che spesso riflette proprio sul rapporto che c’è fra questi e la Natura. Tant’è che il trinomio uomo-città-natura rappresenta spesso il punto nevralgico di queste narrazioni.

In modo specifico, è l’attenta Officine Ubu che negli ultimi tempi sta mostrando un particolare occhio di riguardo nei confronti di questo delizioso cinema antropologico/esistenziale. Circa un anno fa, infatti, grazie a questa label abbiamo potuto vedere sui nostri schermi il bellissimo Lunana – Il villaggio alla fine del mondo (entrato persino nella cinquina finale degli Oscar nella sezione “miglior film internazionale” come rappresentate del Bhutan), mentre lo scorso aprile ci aveva estasiato con l’ipnotico Utama – Le terre dimenticate (un duro dramma di sopravvivenza che ci conduceva sull’Altopiano boliviano e all’interno della cultura quechua).

Due film, questi, che riflettevano entrambi – seppur in modo completamente diverso – sul concetto di urbanizzazione e sul conseguente bisogno di ricongiungersi con tutto ciò che è primitivo, primordiale e naturale. Un mondo civilizzato che, nell’illusione d’essere proiettato verso il futuro, ha condotto l’essere umano in una dimensione nichilista in cui la felicità è solo un concetto astratto e illusorio.

Officine Ubu distribuisce ora nei cinema L’ultima luna di settembre, un film proveniente dalla Mongolia e che, proprio insieme a Lunana e Utama, potrebbe completare una trilogia immaginaria dedicata alla fuga dalla città per riscoprire i veri valori terrestri.

Tratto dal racconto Tuntuulej di T. Bum-Erdene, L’ultima luna di settembre segna il debutto alla regia dell’attore mongolo Amarsaihan Balžinnâmyn che, oltre a dirigere il film, lo sceneggia e lo interpreta nel ruolo del protagonista Tulgaa. Un’operazione particolarmente sentita che ha restituito al regista non poche soddisfazioni. Il film, infatti, ha esordito al prestigioso Vancouver International Film Festival (dove si è aggiudicato il premio del pubblico) ed è stato inevitabilmente il candidato proposto dalla Mongolia per la corsa agli Oscar 2023.

L’ultima luna di settembre è un film che aderisce perfettamente a quanto ci siamo detti sopra, ovvero un cinema che intende addentrarsi in modo profondo nella cultura della Mongolia, quella più rurale e sincera, e lo fa sposando l’intelligente punto di vista di chi quel mondo lì se lo è lasciato volutamente alle spalle per cercare qualcosa d’altro. Quindi il punto di vista non è di chi ignora la forza della Natura (Lunana) o di chi ciecamente ripudia l’urbanizzazione (Utama), bensì lo sguardo, questa volta, è privato di qualsiasi forma di pregiudizio. Perché è quello di chi è cresciuto in quel mondo agreste, ci ha speso i primi anni di vita e poi ha deciso di lasciarselo alle spalle per inseguire qualcosa di più ambizioso e appetibile. Qualcosa che forse non arriverà mai ma che, tuttavia, continua ad essere desiderabile.

Potremmo banalmente dire che è questa la prima e grande lezione che L’ultima luna di settembre vuole impartirci, ovvero quella di imparare a capire il valore di quello che abbiamo tra le mani oggi e accantonare – almeno in parte – quella smania insita in ognuno di noi di guardare in modo incessante verso quello che non si ha e verso quello che tutti vogliono. Siamo convinti che la felicità sia sempre altrove, sia sempre alla fine di un percorso tortuoso e sofferente, e tante volte non ci rendiamo conto che la felicità – o più banalmente quello che si sta cercando davvero – sia lì a portata di mano. Sotto il proprio naso. Ma spesso siamo incapaci di vederla, di afferrarla, perché se facile da raggiungere non può dirsi felicità.

E questo è proprio quello che succede a Tulgaa, un uomo di mezza età che si trova a tornare nella sua terra d’origine, una landa desolata in cui occorre prendere il cavallo per raggiungere la casa dei vicini. Amarsaihan Balžinnâmyn ci racconta la steppa della Mongolia come un luogo-non-luogo, un posto sospeso nel tempo e nello spazio in cui la notte insegue il giorno all’interno di un circolo vizioso in cui tutto sembra essere un po’ uguale. Perché la routine prevede ciclicamente sempre le stesse cose: l’arare i campi, lo spostamento a cavallo, suonar l’armonica al tramonto e il trovar rifugio all’interno di una iurta piccola ma confortevole. La steppa della Mongolia, dunque, diventa quasi un luogo dell’anima necessario a Tulgaa per disintossicarsi dai ritmi urbani, dalla frenesia della civilizzazione spinta, dalla dipendenza nei confronti di tutto ciò che è tecnologico così come da quella nei confronti degli altri esseri umani.

Tulgaa soffre in città, lo capiamo chiaramente nei primi minuti del film, e per lui il mondo urbano rappresenta una sconfitta (soprattutto sul piano umano). Eppure ha bisogno di un motivo importante per mollare tutto e tornare lì dove ogni cosa è iniziata. Giunto nella steppa, Tulgaa non fatica affatto a riadattarsi ai ritmi di quel mondo del contado, assolutamente no, perché nel suo profondo sa molto bene che lui stesso è un pezzo di quel posto. Ma quell’irrefrenabile desiderio – a volte anche stupido – di guadare continuamente altrove, di ambire ad altro, lo porterà a non capire mai fino in fondo le sue vere necessità. Schiavo com’è – e forse come lo siamo tutti nell’epoca moderna – di quel detto che ci porta a credere che la vita debba necessariamente essere un viaggio continuo.

E qui si aggancia quello che è il secondo tema de L’ultima luna di settembre, ovvero il tema centrale del film, un discorso molto interessante che viene condotto nei confronti della genitorialità. Perché L’ultima luna di settembre è un film che parla chiaramente dell’essere genitori ma lo fa ignorando completamente il concetto di genitorialità biologica. Il film di Amarsaihan Balžinnâmyn ruota tutto attorno alla domanda: cosa significa essere genitori?

Il film si apre con Tulgaa che scopre, attraverso una telefonata, di avere un figlio ma di non averlo mai saputo. Poi riceve un’altra telefonata che lo informa che sta morendo l’ultima persona a cui è affettivamente legato, il suo patrigno, colui che gli ha insegnato tutto pur non essendo il suo padre biologico. E poi, nel momento in cui entra in scena il piccolo Tuntuulei, tutta la narrazione si tramuta in un racconto di ricongiungimento padre-figlio ma tra due persone che non sono legate da nessun vincolo di parentela.

E quindi, ancora una volta, quella capacità di saper riconoscere il momento in cui sarebbe bene uscire da certi schemi che la società vuole imporci come giusti o sbagliati. Una società che nel tempo ci ha convinti che è solo nella città che si può edificare un futuro rispettabile e che sono solo i legami biologici quelli che possono essere eletti come autentici.

L’ultima luna di settembre lancia dunque tanti spunti di riflessione nobili, tanti interrogativi che continuano a risuonare a lungo nella mente dello spettatore (soprattutto dopo la scelta di un finale particolarmente coraggioso e struggente). Eppure, a differenza dei già citati Lunana e Utama che sapevano come entrare sottopelle e sconvolgere di netto la percezione che si ha del mondo civilizzato in contrapposizione a quello agricolo, L’ultima luna di settembre non riesce mai ad andare così tanto in profondità. È come se Amarsaihan Balžinnâmyn avesse timore di scavare davvero in fondo. Tutto resta un po’ superficiale, purtroppo, dal ricongiungimento di Tulgaa con il mondo agricolo al rapporto padre-figlio con Tuntuulei. Persino i magnifici scenari naturali della Mongolia potevano essere valorizzati di più o comunque in modo più incisivo.

E forse, ultimo appunto che si muove nei confronti di un film che suggestiona ma non affascina come avrebbe potuto, sarebbe stato opportuno che Amarsaihan Balžinnâmyn si limitasse alla sola regia perché la sua interpretazione di Tulgaa resta sempre un po’ troppo fredda e monotona, incapace di catturare a dovere l’empatia di chi guarda, a differenza del piccolo Tėnüün-Ėrdėnė Garamhand che invece convince pienamente nel ruolo di Tuntuulei.

Giuliano Giacomelli

PRO CONTRO
  • Un racconto quasi magico, ambientato in una Mongolia che ha il sapore di un luogo della mente e dello spirito.
  • Tanti spunti tematici su cui sarebbe bene riflettere, soprattutto in un’epoca moderna in cui tutti i valori sembrano essere omologati fra loro.

 

  • Una certa superficialità in tutta la narrazione.
  • Amarsaihan Balžinnâmyn interpreta un protagonista con cui si empatizza poco.
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