Mary Shelley – Un amore immortale, la recensione
“Non ho mai letto una così perfetta sintesi di cosa si prova ad essere arrabbiati. Ho vissuto la rabbia del tuo mostro, ho bramato la sua vendetta. Perché era la mia.”
È così che Claire, sorella di Mary, descrive Frankenstein dopo averne letto il manoscritto. Uno dei passaggi più belli e significativi di un film che, altrimenti, ha il sapore amaro dell’occasione sprecata.
Frankenstien è uno dei romanzi più famosi mai scritti, fonte d’ispirazione per moltissimi autori, studiosi e filosofi in tutto il mondo. Ha subito negli anni innumerevoli adattamenti per media (cinematografici, teatrali, televisivi, videoludici…), che hanno contribuito a sancirne l’ascesa tanto nell’Olimpo letterario, quanto nell’immaginario collettivo di generazioni.
A fronte di tanta fama, poco sappiamo però della mente dietro l’opera. Mary Shelley è l’incarnazione della donna moderna, che prima di qualsiasi altra cosa anela alla libertà. Di studiare, di parlare e di amare. Così spiritualmente vicina alla madre Mary Wollstonecraft, filosofa e fondatrice del femminismo, morta pochi giorni dopo averla data alla luce, da andare incontro ad un destino ironicamente molto simile.
È questa la storia che la sceneggiatrice Emma Jensen e la regista Haifaa Al-Mansour decidono di raccontarci, a partire dal rapporto di Mary con i genitori e con il senso di colpa per la morte della madre che la perseguita in orribili incubi e visioni.
La storia d’amore tra la Wollstonecraft e il filosofo William Gudwin era stata segnata dallo scandalo di una relazione vissuta apertamente fuori dal matrimonio, sopraggiunto solo dopo la scoperta dalla gravidanza, per facilitare il futuro della bambina in società. La visione liberale dei due, contrari all’idea del matrimonio come vincolo per avvalorare una relazione, si trasmette alla giovane Mary che, solo sedicenne, si innamora del giovane poeta Percy Shelley, già sposato e con una figlia, ma separato dalla moglie. Dopo il rifiuto del padre di lei di approvare la loro unione non ufficiale, Mary si arrabbia e decide di scappare con l’amato in Francia, seguita dalla sorella Claire.
Quello che si snoda davanti agli occhi dello spettatore è fondamentalmente un dramma sentimentale, che racconta di una donna emancipata per l’epoca che decide di vivere il suo amore liberamente, incurante delle conseguenze. Sguardi intensi e lunghi silenzi si accompagnano al rumore e ai dettagli della penna che scorre veloce sui quaderni dove Mary scrive storie di mostri e fantasmi. Storie già sentite e già lette, non dissimili da quelle di Gudwin che la incoraggia a “trovare la sua voce e lasciar perdere quello che scrivono gli altri” a cercare qualcosa di unico, che parli di lei. Ma la confusione che le alberga dentro non le da tregua.
Mary cerca sostegno e comprensione prima dal padre, che seppur di ampissime vedute tende ad allontanarla, temendo di rivedere nella figlia il dolore vissuto dall’amatissima moglie. Poi dal compagno Percy, che nonostante la ami e incoraggi finisce, a sua volta, per prendere decisioni avventate ed egoistiche, non comprendendo fino in fondo i tormenti della donna.
Il rapporto difficile tra i due, segnato dalla voglia d’indipendenza, mista al bisogno di Mary di avere con l’uomo un rapporto sentimentale esclusivo “avevamo stabilito che la nostra relazione sarebbe stata libera da costrizioni” le ricorda lui dopo una scenata di gelosia, ci riportano il quadro di una giovane donna combattuta, indipendente ma anche bisognosa della guida e del riconoscimento delle persone che ama.
È da questo intreccio di frustrazioni, culminante nella tragedia della morte della figlia neonata (a causa della vita sregolata e senza risorse che lei e il compagno conducono), che simbolicamente fa da specchio a quella della madre, che emerge Frankestein. Sintesi della rabbia, del senso di abbandono, delle paure e delle speranze di Mary, che si fondono agli studi ed esperimenti sul galvinismo (stimolazione della contrazione muscolare tramite l’elettricità), a cui spesso la vediamo assistere affascinata nel corso del film.
Gli incubi di Mary sono terribili, o almeno così lei ci racconta, perché noi poco o nulla vediamo di questi tormenti che non le danno tregua. La volontà forse di mantenere una certa “compostezza”, senza sfociare nell’horror, portano le altrimenti importanti sequenze oniriche a non lasciare troppo il segno nello spettatore, che non riesce completamente a calarsi nell’angoscia e nella paura che vive la protagonista. L’intento delle autrici era evidentemente diverso, forse più orientato verso il dramma in costume, ma il dispiacere resta.
Mary Shelley è un’opera biografica che si concentra nel raccontare la storia della scrittrice scavando nella sua dimensione personale di donna, fondamentale per comprendere le ragioni che ne hanno spinto la creatività. Scelta che tuttavia non avrebbe escluso un approccio narrativo più dinamico e audace.
Quello che ci rimane dalla visione invece è un senso d’incompletezza. Mary Shelley manca di mordente, un elemento fondamentale per raccontare la storia di una donna con un mondo interiore così complesso e una vita così travagliata e ricca di spunti interessanti.
Anche se poco studiata a scuola, Mary Shelley è da sempre protagonista della sua personale favola gotica, che generazioni di studenti si sono sentiti ripetere tra banchi di scuola e aule universitarie. È la storia che inizia in una tempestosa notte del maggio del 1816 a Ginevra nella villa di Lord Byron, dove Mary Shelley, il marito Percy Shelley, John Polidori e lo stesso Byron decidono di sfidarsi, per combattere la noia, scrivendo un racconto dell’orrore.
Il fascino della “nascita” di Frankenstain è tale anche e soprattutto, perché l’autrice è una donna che calata in un contesto sia fisicamente che idealmente prettamente maschile, riesce ad emergere creando qualcosa di unico, di cui pochi (per non dire nessuno) l’avrebbero creduta capace.
La magia di quella famosa notte a casa di Lord Byron, la tempesta e il gruppo riunito che si racconta storie di fantasmi, Shelley che tra tutti emerge scrivendo il racconto della vita… sono tutti elementi presenti, ma che non colgono nel segno e restano immagini sfumate.
La “leggendarietà” del momento nel film si perde quasi completamente tra battibecchi e drammi d’amore (Byron aveva una relazione con la sorella di Mary). A sostenerne il pathos, solo il pallido intravvedersi, durante l’ennesimo incubo, del braccio “rattoppato” di un uomo morto che riprende vita.
Probabilmente deliberatamente tenuta sottotono, proprio per evitare un effetto di “sensazionalismo”, questa scelta stilistica, che forse qualcuno potrà anche apprezzare, priva la storia di quella magia e “forza” narrativa che spesso viene associata alla figura della Mary Shelley e che l’avrebbe forse reso più interessante.
Un amore immortale è il sottotitolo italiano del film, sicuramente l’amore è un elemento importante della storia, che rischia però a sua volta di risultare un po’ banalizzato, quasi “dovuto”, in un film dove a fronte di un ritmo tendenzialmente lento, molti passaggi importanti si risolvono rapidamente senza dare il tempo allo spettatore di entrare nel merito e affezionarsi davvero ai personaggi.
Altro elemento che potrebbe deludere è l’interpretazione della protagonista Elle Fanning, la cui performance appare debole. Se nella prima parte del film, quando Mary è più “giovane”, lo sguardo innocente e stranito dell’attrice risulta efficace, mano a mano che la vicenda procede, la sua petulanza si sposa poco con la donna che Mary diventa e con la sua storia.
Mary Shelley è un film godibile tutto sommato, ma solo per gli amanti dei drammi in costume e degli amori struggenti che si consumano in lunghi e dolorosi anni d’incomprensione. C’è un riscatto finale, proprio in quella scena che abbiamo citato all’inizio tra Mary e sua sorella Claire, un riscatto che però arriva troppo tardi con il rischio di non renderci pienamente soddisfatti. Peccato.
Susanna Norbiato
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