N-Capace, la recensione

Presentato in concorso all’ultimo Torino Film Festival, dove è stato prima accolto calorosamente, in quanto solo film italiano riuscito dei due in gara, e dove ha poi vinto due menzioni speciali, una alla regista e una ai personaggi intervistati, create apposta per questa opera prima dell’attrice teatrale Eleonora Danco.
N-Capace è una docu-fiction leggera e divertente, in cui si mescolano video-arte, immagini di ispirazione teatrale e film-inchiesta. Un film quasi pasoliniano, a cavallo tra autenticità e finzione, che per questo risulta difficile etichettarlo semplicemente come “documentario”.
La regista si fa sia attrice protagonista che intervistatrice fuori campo, aggirandosi in abiti stravaganti tra Roma e Terracina e intervistando abitanti di diverse generazioni, dai più anziani ai giovanissimi. Le interviste riguardano i grandi temi della vita: l’amore, il sesso, il futuro…più che altro, le domane sono studiate per fare uscire la mentalità della persona intervistata. Perché è questo N-Capace, un confronto tra generazioni e mentalità, un ritratto dell’Italia contemporanea e una speranza per il futuro. Il tocco della regista è personalissimo, e questo si evince già dalla scelta di mettere in scena sé stessa, messa a nudo sia metaforicamente che fisicamente, fino ad intervistare il riluttante anziano padre, che timidamente difende la propria privacy.
Il film è geniale e le interviste non annoiano mai, anche se le domande fatte sono per lo più sempre le stesse, o almeno le interviste cominciano per lo più sempre allo stesso modo, ma poi si trasformano e prende forma un dialogo diretto tra intervistatore e intervistato, privilegiando infine la particolare esperienza di vita della persona intervistata.
L’approccio della Danco è diretto ma dolce, perfettamente in grado di interagire così profondamente con i personaggi intervistati, mettendoli a proprio agio anche quando rivolge domande imbarazzanti. L’attrice-regista, pur rimanendo fuori campo nelle interviste, conversa e ride con i suoi personaggi, come se fosse una chiacchierata qualunque, tra vecchi amici. Inoltre, ha saputo scegliere i momenti più interessanti delle interviste raccolte, montandole in una pellicola imprevedibile e spumeggiante, ma soprattutto intellegibile anche dai meno amanti del genere.
L’approccio della regista, le intenzioni del film (peraltro molto chiare) rispecchiano lo stesso rapporto di odio-amore vissuto dall’autrice con la capitale. Eloquente è la scena in cui la regista filma sé stessa vestita con una tunica romana e armata di piccone, aggirandosi nella Urbe nazionale, tra antiche rovine romane e tracce di una società industrializzata. Perché è su questo contrasto che è giocato l’intero film, proprio a partire dall’alternare interviste ad anziani e a giovanissimi, come se gli abitanti fossero incapaci di far convivere il vecchio col nuovo.
Claudio Rugiero
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