Women Talking – Il diritto di scegliere, la recensione
Nel 2005, in Bolivia, nella colonia mennonita di Manitoba, cominciò a diffondersi la voce che molte donne della comunità avevano subito aggressioni notturne. I mennoniti sono un movimento cristiano anabattista che sembra essere fuori dal tempo: rifiutano l’elettricità, ogni strumento tecnologico, perfino l’uso delle automobili e vivono isolati dal resto del mondo parlando solo il plautdietsch, un dialetto della Germania sud-orientale. Le donne vivono nella più completa ignoranza osservando rigide regole religiose e per loro queste presunte aggressioni erano una punizione divina, finché qualcuno non scoprì la verità: si trattava di un gruppo di uomini di una zona limitrofa che, durante la notte, si intrufolavano nelle camere da letto delle donne della comunità, di ogni età, le sedavano fino a renderle incoscienti e le stupravano ripetutamente. Questa cosa è andata avanti per anni, finché, nel 2009, i responsabili sono stati consegnati alla giustizia; nonostante ciò, da indagini successive, le donne non hanno seguito alcun percorso per elaborare il trauma, abbandonate a sé stesse e alle assurde regole del “mondo” in cui si sono trovate a vivere, senza la forza o la possibilità di fuggire.
È da questa terrificante vicenda che ha preso spunto la scrittrice Miriam Toews, ex mennonita, per il suo romanzo Donne che parlano, che si incentra proprio su alcune appartenenti alla comunità intente a confidarsi e confrontarsi sulle vicende accadute per prendere una decisione sul da farsi, su come comunicare agli uomini, anzi all’esterno, il loro vergognoso segreto.
Ed è proprio dal romanzo della Toews che deriva il quarto lungometraggio da regista dell’attrice Sarah Polley (L’alba dei morti viventi, Splice, Mr. Nobody), Women Talking – Il diritto di scegliere, candidato a due premi Oscar e strategicamente distribuito in Italia a partire dall’8 marzo.
Women Talking è uno di quei film capaci di mettere in crisi il più onesto e volenteroso critico cinematografico perché è quello che, informalmente, potremmo definire “una grandissima paraculata”.
Quello diretto da Sarah Polley è un film piuttosto bruttino, senza reali qualità tecnico/estetiche che si contraddistingue, anzi, per una scellerata fotografia a cura di Luc Montpellier risultata da un filtro grigio applicato indistintamente sulla totalità del girato/montato. Visivamente è un’opera piattissima, respingente, avvalorata solo dalla bella colonna sonora di Hildur Guðnadóttir (Joker, Tár, Soldado) e da un cast davvero gagliardo che comprende il meglio del parterre attoriale femminile contemporaneo: Rooney Mara, Jessie Buckley, Claire Foy e (in un piccolo ruolo) Frances McDormand.
Ma quello che lo spettatore si troverà a guardare per 104 interminabili minuti è, letteralmente, quello che promette il titolo: donne che parlano.
Ora lo sanno anche i bambini che quello che funziona e risulta coinvolgente su carta non è detto che possa andar bene anche su pellicola, quindi, se il libro Donne che parlano è costruito come una serie serrata di confessioni, confronti, discussioni tra un gruppetto di donne, un film uguale può risultare un’esperienza tediosa come poche, che inevitabilmente porta alla distrazione dello spettatore. Però – e qui c’è la “paraculata” di cui sopra – a parlare male di un’opera che affronta un tema così importante, in un periodo storico come quello che stiamo vivendo e lo fa dandosi un tono quasi autoriale, sembra proprio di star nel torto. E infatti, per lo più, leggerete molto bene di Women Talking e questo nonostante chi firmerà l’articolo che scrollate sul cellulare sia uscito a metà proiezione o si sia fatto una sonora dormita sulla poltrona del cinema.
Al netto di tutto, quello di Sarah Polley è un film statico e noioso che affronta il tema della violenza sulle donne in maniera didascalica e colma di retorica, costruendo perfino una sottotrama melò che vede coinvolto l’unico uomo del film, un insegnante sensibile, timido e segretamente innamorato di una delle donne del gruppo che è stato scelto dalle stesse per trascrivere i verbali delle loro riunioni, visto che loro sono analfabete. A interpretarlo l’ex Q della saga bondiana dell’era Craig, Ben Whishaw, probabilmente la scelta più sbagliata per impersonare questo personaggio chiave che, agli occhi delle donne, dovrebbe essere l’elemento di riscatto per il sesso maschile ma, così caratterizzato e interpretato, ricorda più che altro gli “sfigati” dei teen-movie anni ‘80.
All’inizio del film appare scritta la didascalia “Quello che segue è un atto d’immaginazione femminile” che sembra quasi orientare lo spettatore verso la visione di una storia distopica, ma, ahinoi, di distopico c’è ben poco e migliaia di donne quella vita assurda la vivono davvero ancora oggi, nel terzo millennio, private dei diritti, dell’istruzione e della dignità.
Una vicenda come quella di Donne che parlano meritava un film migliore, forse un approccio completamente differente, capace di comunicare davvero a un ampio pubblico, così ci sembra invece di assistere a un episodio filler di The Handmaid’s Tale… e pensare che nel 2003, quando questi argomenti non erano prioritari per le case di produzione, Lars Von Trier era andato nella medesima direzione con Dogville, solo che in quel caso l’originalità della messa in scena e la forte personalità autoriale avevano lasciato il segno, qui si rischia davvero di finire nel dimenticatoio in men che non si dica.
Roberto Giacomelli
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