Acrid – Storie di donne, la recensione

Opera prima firmata da Kiarash Asadizadeh, dalle atmosfere che richiamano Una separazione di Asghar Farhadi, Acrid è un ritratto poliedrico dell’essere donna e dell’essere famiglia in Iran. Le donne, così lontane dalla visione occidentale, sono accomunate da un fato comune: il dover lottare per essere se stesse e per una libertà che ancora gli viene negata, mentre le condizioni famigliari appaiono, in maniera quasi inaspettata, così vicine e così drammaticamente identiche alle nostre.

I destini delle quattro donne protagoniste sono legati dal filo invisibile del tradimento: Soheila è un’infermiera e vive con un marito infedele; Azar è la nuova segretaria del marito di Soheila; Simin è un’insegnante di chimica che ha avuto la forza di uscire da un matrimonio violento ed è l’amante del marito di Azar; infine, Mahsa è una studentessa, allieva di Simin e figlia di Soheila, che chiude questo cerchio di vite.
Quattro donne che lottano, scappano e si arrendono, ma cercano in tutti i modi di vivere. Dall’altra parte ci sono quattro uomini infedeli, rappresentazione di un Paese che non vuole cambiare e non vuole essere diverso da quello che è (emblematica la scena iniziale, per mettere in primo piano il rapporto uomo-donna).

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L’obiettivo di denuncia del regista arriva chiaro e forte: Asadizadeh ha scelto un argomento che merita sempre l’attenzione degli spettatori ma la sua trattazione semplice, in qualche modo pedagogica, nasconde tra le pieghe il temutissimo “già visto”. Registicamente impeccabile, il film trova il suo punto di forza nell’articolata struttura narrativa: il meccanismo circolare della narrazione permette ai personaggi di essere legati fisicamente ma soprattutto spiritualmente. Il destino delle donne iraniane è il medesimo per ogni generazione e per ogni classe sociale. Dato per certo che tale struttura ha suscitato un grande fascino, la stessa cosa non può dirsi della narrazione nel suo complesso.

Gli attori, vincitori del premio Miglior Cast di attori emergenti all’ottavo Festival di Roma, non deludono le aspettative ma non sono supportati da un’ottima sceneggiatura. In questo caso in particolare le parole dovevano pesare ed anche molto, dal momento che si parla di denuncia sociale. La sceneggiatura ha dei frequenti alti e bassi di qualità e trova il suo punto di non ritorno in una serie di sequenze in cui le sovrapposizioni vocali e le urla non danno la giusta importanza ad argomenti tanto delicati. Spesso, se troppo urlato e forzatamente ripetuto, il messaggio non tocca il cuore dello spettatore.

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Acrid vuole rappresentare una società che modifica i suoi rapporti interpersonali ma che, alla fine, nella violenza e nell’assenza di libertà, rimane sempre la stessa. La parola “acrid” vuol dire acre, aspro, quel sapore e quel sentimento che le donne iraniane (e non solo) non dovrebbero più accostare alle parole sentimenti e matrimonio. Il film è in sala dall’undici giugno, distribuito da Imagica.

Matteo Illiano

PRO CONTRO
  • La struttura circolare crea un affresco di vite legate da un destino comune.
  • Gli attori emergenti convincono in quasi tutte le scene.
  • I dialoghi, urlati o sussurrati, mantengono l’aura del già sentito.
  • La figura maschile non viene minimamente caratterizzata.
  • Alcune sequenze non rendono onore agli argomenti trattati.
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