After 3: non tutti possono essere Nate Jacobs

Se c’è una cosa che la HBO ci ha insegnato dopo aver divulgato urbi et orbi ben due stagioni dello struggente Euphoria, è che anche nell’epoca del “temibile” politically correct il pubblico non disdegna narrazioni con tematiche sensibili purché contestualizzate in modo dignitoso.

Non si può quindi più stare in silenzio davanti al fatto che prodotti letterari come il fenomeno After, considerati “potenzialmente nocivi”, nella loro trasposizione cinematografica siano stati tagliuzzati e snaturati, lasciando un vuoto nel cuore di milioni di fans e nelle tasche di produttori sognanti.

L’epopea di Anna Todd nella sua bruttezza stilistica era molto meno trash di quello che si pensasse: il protagonista Hardin  Scott è un “personaggio grigio” da manuale che in mano a uno sceneggiatore “studiato” avrebbe potuto proporre discreti punti di riflessione a un pubblico adolescente, e invece no, nel corso di tre film lo hanno affidato a Jenny Gage, Mario Celaya e a Sharon Soboli che probabilmente al college guardavano Grey’s Anatomy mangiando cioccolato vegano, mentre gli screen players di Euphoria si dedicavano a serie tv israeliane fumando colla.

Fu così dunque che la soap opera di After è stata punita dalla Decima Musa per aver osato spacciarsi per quadrilogia cinematografica, tanto che gli ultimi due lungometraggi saranno distribuiti direttamente sulla piattaforma Amazon Prime, per essere relegati a filmetti da sabato pomeriggio da vedere tra amiche adolescenti inebriate dal Bacardi Breezer alla pesca.

After We Fell è la trasposizione del terzo romanzo della Todd: la trama procede attraverso una “carriolata” di mini-episodi da un quarto d’ora scarso ciascuno che potrebbero essere enumerati col titolo di “Hardin che fa cose, vede gente1-2-3-4-5”, poiché di tutti i drammi, il trash, le scenate plateali che su Wattpad avevano fatto un miliardo di visualizzazioni ci rimangono solo stucchevoli discorsi d’addio, riappacificazioni un po’ osé e discorsoni paternalistici.

Dando fondo a tutte le nozioni di narratologia esistenti, si potrebbe anche ricostruire una trama dicendo che il film inizia con Tessa che, posseduta dal demone dell’emancipazione, decide di trasferirsi a Seattle e seguire il proprio sogno di fare carriera nel mondo dell’editoria; non prima di aver ritrovato il padre alcolizzato che non vedeva da dieci anni e aver raccattato sia lui che il suo grande amore nel peggiore bar della contea di Washington, di quelli con le luci soffuse e i barman con l’asciugamano sulle spalle per intenderci. Inutile dire che questa botta di personalità da parte della protagonista è solo una scusa per iniziare un tira-e-molla col fidanzato abusivo dell’anno che, non trovando un’altra “Madre Tessa” di Calcutta nel giro di un chilometro decide di seguirla a Seattle e provare a ricucire il rapporto tossico che aveva con lei; il tutto a spese zero nella lussuosissima villa del suo protettore Vance.

Non mancano i possibili rivali: come nel secondo film per Hardin c’era stato “Trevor Lo Stronzo”, in questo nuovo episodio compare il Buon Robert, e a far preoccupare Tessa invece c’è… una persona che parla con Hardin per tipo cinque minuti. Sul finale, come ogni multimiliardaria casa di produzione che si rispetti, Amazon Prime ha preteso un colpo di scena blandissimo in modo da avere la scusa di finire la quadrilogia e rimanda lo spettatore alla visione del trailer dell’ultimo capitolo. Dopo tanti feedback negativi occorre fare un applauso alla direzione artistica e agli interpreti che si sono impegnati davvero tanto: inutile dire che a fare la differenza tra questo e un film per la tv adolescenziale -o pellicola cult dei primi anni Duemila- sono la fotografia limpida, che con un uso della luce molto “rassicurante” incornicia tutti gli sfondi dei diverbi degli “Hessa”, tanto quanto gli scenografi che, sfruttando al meglio tutti gli appigli della trama, dilettano lo spettatore con idilliache scene paesaggistiche e piazzano i momenti che generosamente chiamiamo intensi in una natura che fa sperare in una risoluzione dei conflitti fra i due personaggi principali.

Se  Robert Pattinson e Kristen  Stewart dall’espressione monolitica sono riusciti a levarsi di dosso solo dopo dieci anni lo stigma di aver recitato nella saga di Twilight, in cui almeno scorreva il sangue, i talentuosi Josephine Langford e Hero Fiennes Tiffin  dopo questa terza pellicola possono essere presi in seria considerazione dalla critica perché hanno saputo  tenere in piedi per un’ora e mezza una storia che non è trash, non intrattiene e non provoca neppure un onesto raccapriccio; è solo il guscio vuoto della scapicollata fanfiction sugli One Direction che in Italia ha fatto la fortuna della Sperling & Kupfer. Il fandom originale merita che uno degli sceneggiatori di Euphoria o di Beautifull dia agli Hessa una nuova vita, incorniciandoli in una storia che possa essere o veramente trash o veramente drammatica, tutto purché non noioso.

Ilaria Condemi de Felice

PRO CONTRO
Accuratezza artistica. Noia totale.
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After 3: non tutti possono essere Nate Jacobs, 5.0 out of 10 based on 1 rating

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