Blackhat, la recensione

In gergo informatico con il termine black hat è indicato un hacker con fini criminali e su questo termine (ma tutto attaccato!) Michael Mann ci ha costruito il suo ultimo, grande, film, un cyber-thriller che, in un solo colpo, raccoglie quanto di meglio questo filone abbia fatto negli anni.

Chi segue la carriera di questo regista sa quanto sia importante per lui l’esplorazione degli spazi urbani, tanto che due dei suoi migliori film, Heat – La sfida e soprattutto Collateral, trasformano la metropoli in uno dei protagonisti del film. Ampi spazi che donano un ampio respiro alle scene, diventando quasi liberatorie: che siano fughe, inseguimenti, sparatorie o semplici passeggiate. Mann ama la metropoli e lo trasmette in ogni sua opera, a cominciare dai trascorsi televisivi d’esordio con la serie cult Miami Vice, di cui è stato produttore, vero e proprio simbolo della serialità televisiva metropolitana anni ’80.

Tra alti (Collateral, appunto) e bassi (il film di Miami Vice e il fallimentare Nemico Pubblico – Public Enemies), gli ultimi anni di Mann si sono contraddistinti soprattutto per il suo ruolo in produzione (tra i tanti anche i film di Peter Berg The Kingdom e Hancock) finché arriva Blackhat, il film della riabilitazione.

Molto vicino per stile e ritmo a Collateral, Blackhat pone al centro di tutto proprio la città, anzi le città, che siano l’americanissima Los Angeles o le orientali Hong Kong e Jakarta. Spazi urbani che avvolgono i protagonisti e diventano location di tutta l’azione: le strade notturne e deserte, ma anche affollati scenari di cerimonie religiose, sono alla stregua delle polverose main street dei film western, dove si consumano duelli sparatorie.

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In Blackhat si racconta la storia di un attacco terroristico informatico a una centrale nucleare di Hong Kong che causa un surriscaldamento agli impianti e un’esplosione mortale. Segue un secondo attacco ai danni della borsa di Chicago, che genera un’impennata dei titoli della soia. Collegando i due eventi, le autorità cinesi sono costrette a collaborare con l’FBI e trovano in Nick Hathaway l’uomo giusto per risolvere in caso, in quanto il codice algoritmico utilizzato dall’hacker è stato in parte ideato da lui. Ma Nick sta scontando una condanna in un penitenziario di massima sicurezza e la condizione che pone per poter prestare il suo aiuto è la cancellazione della pena.

Nella migliore tradizione del cinema thriller di matrice tecnologica, Blackhat unisce una trama articolata e pregna di eventi a uno stuolo di personaggi ben costruiti a cui è facile affezionarsi. In questo caso non c’è un soggetto particolarmente originale perché di storie in cui a un criminale viene offerta la libertà in cambio di una fondamentale collaborazione ne abbiamo viste davvero molte, ma la foga e l’ostinazione con cui Mann ci racconta la storia di Nick Hathaway è esemplare e quasi commovente. Un film in cui la storia conta ma non è fondamentale, piuttosto sono al costruzione dei personaggi e la genuinità delle scene d’azione a fare da sole il film.

Nick Hathaway, interpretato da un Chris Hemsworth in grande forma, è un anti eroe che cattura da subito la simpatia dello spettatore, un personaggio quasi carpenteriano (chi ha detto Napoleone Wilson e Jena Plissken?) inserito in un contesto a lui consono, ma nel quale si muove da clandestino. Non il classico “accusato ingiustamente che cerca giustizia”, come troppo spesso e banalmente accade al cinema, ma un figlio di puttana con i fiocchi che delinque con la faccia di bronzo di chi ci prova gusto e anche quando è costretto a collaborare con la giustizia, si muove solo per il suo interesse, cercando di trarre vantaggio da qualsiasi situazione. E basta il primo colloquio in prigione di Nick con il negoziatore per capire di che pasta è fatto questo personaggio, un bel “duro” che non stonerebbe come icona di una saga action.

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E l’azione è l’altro grande pregio di Balckhat. Mann è bravissimo a coreografare e dirigere le scene di sparatoria, lo ha dimostrato praticamente in ogni film che ha fatto e in quest’ultimo non sono da meno. Ci sono almeno tre grandi scene in cui volano proiettili in ogni dove, scontri a fuoco dinamici e ricchissimi di tensione che sono una prova di grande maestria da prendere ad esempio per ogni giovane regista che vuole cimentarsi con questo genere.

Unico cruccio in un film in cui davvero è dura trovare un difetto è l’ostinazione con cui Mann continua a girare in digitale con attrezzature che forse non sono il top sulla piazza. In Collateral c’era sperimentazione, in Nemico Pubblico semplice discrepanza tra ciò che si vede e i mezzi che si utilizzano; con Blackhat a risentirne, a volte, è la fluidità visiva dell’azione e quella piattezza fotografica che l’illuminazione basilare e la definizione digitale irrimediabilmente e grezzamente genera.

Con un ritmo mediamente elevato e un coinvolgimento emotivo altissimo, Blackhat sa far breccia nel cuore dello spettatore appassionato di cinema thriller e riesce a incrociarlo con chi cerca da questo genere la qualità del cinema d’autore.

 Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Una storia appassionate popolata da personaggi carismatici.
  • Chris Hemsworth è bravo.
  • Bellissime scene d’azione.
  • La definizione digitale a volte compromette la fluidità dell’azione.
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Valutazione: 8.0/10 (su un totale di 1 voto)
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Blackhat, la recensione, 8.0 out of 10 based on 1 rating

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